La speranza di avere in Italia un’unica rete nell’infrastruttura delle telecomunicazioni rischia di rimanere un sogno.
Anche l’ultimo tentativo, chiamato progetto «Minerva» e divulgato dal sottosegretario con delega e fratello d’Italia Alessio Butti, sembra essersi incagliato. L’ipotesi, in verità alquanto bizzarra, di indurre Cassa depositi e prestiti a promuovere un’Opa su Tim unificando quest’ultima con la concorrente Open Fiber si scontra con numerosi ostacoli. Innanzitutto, la questione societaria, a cominciare dalla valutazione economica del medesimo bene da riportare nella sfera pubblica, con cifre immaginate al momento assai lontane da quelle stimate dal partner di maggioranza relativa Vivendi. Inoltre, si pone un interrogativo di fondo sulla natura della stessa Cassa, che raccoglie il risparmio di migliaia di persone e non è una reincarnazione della vecchia Iri. Oggi – ed è una delle anomalie italiane- l’istituto sta sia nel vecchio monopolio sia nel gruppo a suo tempo cofondato dall’Enel.
Insomma, il tema continua ad essere più un argomento buono per dibattiti e convegni che un effettivo capitolo di una politica industriale innovativa e coraggiosa.
Come nacque la suggestione dell’unicità della rete? Eravamo in un’era diversa, circa trent’anni fa. Nell’universo tecnologico velocissimo è un secolo, almeno. Allora, prima della sbornia liberista, il progetto della rete unica era l’alternativa alla privatizzazione del comparto. Com’è noto, quella dell’allora Telecom fu una delle peggiori cessioni al mercato di un settore fondamentale dell’economia e delle relazioni sociali. Non si trattava di riunificare operatori già in attività, bensì di non svendere una componente strategica del sistema, prossima alla prepotente rivoluzione della banda larga e ultralarga. La rete pubblica sarebbe stata una solida architrave nel tumultuoso mondo digitale, un luogo di accesso democratico alle virtù della comunicazione.
La privatizzazione travolse tutto. Della prospettiva vagheggiata da poche minoranze non si fece in seguito nulla.
L’obiettivo è tornato di attualità negli anni recenti per l’evidente spreco di risorse ed energie di una concorrenza fragile ed ammaccata, in un contesto assai meno favorevole rispetto all’epoca d’oro a cavallo del millennio. Fino ai dati davvero preoccupanti esibiti dal recente forum dell’associazione delle imprese (Asstel): anche il pezzo ricco del capitalismo ha la febbre. Non a caso, le organizzazioni sindacali hanno scritto al governo per sollecitare incontri e prese di posizione sui lati oscuri e spesso elusi della conclamata ipermodernità. Del resto, I pesantissimi guai degli oligarchi del Web (da Musk, a Bezos, a Zuckerberg) nonché i traballanti conti italiani ci ammoniscono che è in corso un rivolgimento né effimero né transeunte.
Ecco perché la discussione attuale appare segnata dalle rughe della vecchiaia. Tra l’altro, nel periodo dei governi presieduti da Giuseppe Conte sembrava che il risultato si potesse appalesare con un passo indietro – nell’ipotetica società unica- di Tim e con la Cassa depositi e prestiti a svolgere il ruolo di ago della bilancia a garanzia di Open Fiber e dei Fondi interessati. Poi arrivò il ministro Colao -pur profondo conoscitore del campo ma di rito rigorosamente privato- che azzerò la corsa. tornando alla prima casella del giro dell’oca.
L’esecutivo diretto da Giorgia Meloni, infine, ha persino eliminato il ministero competente, assegnando alla competenza di un sottosegretario della presidenza del consiglio simile funzione delicata. Al di là delle arate capacità della persona scelta, il messaggio è chiaro: la politica abbassi la soglia delle sue velleità, visto che il potere sta altrove.
L’evocazione della rete unica è scesa rapidamente, dunque, al girone della propaganda: un omaggio al sovranismo statalista, così differente dalla proposta originaria figlia delle culture riformiste. Con il pericolo di un bagno di sangue per chi lavora a Tim e per l’azienda medesima.
Ciò significa che va chiuso il capitolo? No. Ma serve, a questo punto, un vero nuovo inizio.