Non è strano che il discorso pubblico sia influenzato dagli aspetti più clamorosi della cronaca. E men che meno lo è in un’epoca nella quale la diffusione delle notizie è divenuta, di fatto, istantanea ed estremamente visiva. Il missile che solca i cieli di una città ucraina, le ragazze iraniane che bruciano il velo in strada, spesso e in misura sempre più massiccia, passano prima – e dove Governi illiberali esercitano la censura – dai social media che attraverso il lavoro delle redazioni giornalistiche. In quest’epoca accade, insomma, che il tweet superi in velocità perfino il lancio di agenzia.
Il rischio, sempre più che in passato, è perciò – non in ogni caso e non necessariamente per una responsabilità diretta dei professionisti dell’informazione – che a prevalere e fissarsi nel discorso pubblico non sia la sostanza ma la superficie dei fenomeni. E così è anche per le morti sul lavoro.
Vorrei fare, in primo luogo, un’osservazione sul lessico di queste notizie. Sui media è comune il termine “morti bianche”. Perché mai? Sono morti sul lavoro. Circoscrivere questi eventi in un’espressione divenuta gergale, banalizza il fatto. Smettiamola. Sono morti sul lavoro e nient’altro. Questo è il testo e il contesto in tutta la sua drammatica realtà. Ognuna di queste tragedie ha la propria storia e tutte hanno il medesimo valore.
Perché, dunque, la stampa accentua il tema delle morti sul lavoro, in modo particolare, quando c’è un incidente più intenso sul piano emotivo? Il ragazzo in stage. O Luana D’Orazio, giovane, bella, madre sola con una figlia piccola rimasta orfana. Sono vittime che creano clamore.
E se prevale l’aspetto emotivo, non si aiuta nessuno a fare dei ragionamenti costruttivi. Ad esempio, nel tempo, le morti sul lavoro sono diminuite. Se andiamo nelle serie storiche, si scopre che non è vero che “si muore come negli anni 60”. Negli anni 60 si moriva più che negli anni 70, negli anni 70 più che negli anni 80 e così via. Da undici morti al giorno si è scesi a tre. Il problema è che quei mille morti all’anno non riusciamo a ridurli. C’è un qualcosa che ha fermato il calo.
È perciò lecito aspettarsi dal mondo dell’informazione che vada proprio al di là della superficie.
Serve l’approfondimento. È necessario sviscerare il tema. Un lavoro di inchiesta che affronti il perché di questo dramma.
Le tecniche di prevenzione, così come le normative e la formazione alla sicurezza, sono andate avanti. Ma purtroppo siamo fermi qui.
È, perciò, necessario identificare la battaglia da condurre. Vorrei indicare quello che per me è il punto sul quale è essenziale che il mondo dell’informazione accenda la luce: la prevenzione.
Come si fa a fare prevenzione? Si deve investire. Dove si prendono i soldi? Dall’Inail, ad esempio. Io sono consigliere d’Amministrazione dell’Inail e chiedo: è possibile che l’Istituto abbia, con i suoi risparmi, 35 miliardi postati nella Tesoreria perché il suo patrimonio fa parte del Bilancio dello Stato e ogni investimento in sicurezza diventi debito? In questo modo, quel che si versa all’Inail per la prevenzione è diventato una tassazione occulta alle imprese. Mi spiego meglio: è come se si chiedesse alle imprese di versare le quote di assicurazione all’Inail non per fare prevenzione, ma per ridurre il debito dello Stato.
Al mondo dell’informazione dico: è necessario portare il tema della sicurezza fuori dalla cronaca per dare alla cittadinanza consapevolezza della realtà. Il tema della prevenzione deve emergere con forza nel discorso pubblico. L’informazione può, in ultima analisi, salvare vite.