Come spiega da tempo immemore il professor De Masi, l’Italia è quel paese in cui si lavora molte più ore, in media, rispetto alle altre nazioni europee, si produce di meno e si guadagna ancor di meno. E anche per quanto concerne la scuola, non è affatto vero che siamo i piu lavativi del Vecchio Continente, anzi. Nonostante questo, se da noi qualcuno, anche fosse uno studioso avveduto e non certo insospettabile di qualsivoglia forma di estremismo come De Masi, si azzarda a proporre la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, sfruttando al meglio le possibilità offerte dalle nuove tecnologie per creare posti di lavoro e renderlo meno alienante, viene immediatamente tacciato di radicalismo e mancanza di realismo. Al che, per una volta, accantoniamo il fioretto e ci affidiamo alla clava. Il punto è che in questo nostro splendido ma dannato Paese esiste una stampa mainstream, che definire “informazione” sarebbe eccessivo, la quale passa mesi, per non dire anni, ad attaccare la sinistra perché non dice e non fa nulla di sinistra, salvo poi aggredire chiunque, in quella stessa parte politica, si azzardi a uscire dai dogmi del pensiero dominante.
A tal proposito, non è azzardato sostenere che il PD versi nelle condizioni che vediamo anche per aver dato retta, troppo a lungo, ai consigli interessati, e talvolta pelosi, di determinati editorialisti, sempre pronti a stigmatizzare qualsivoglia apertura progressista e movimentista e pronti, negli ultimi giorni, a immolarsi per Letizia Moratti, autorevole donna di centrodestra che, magari, sarà anche sincera quando afferma di non avere nulla a che spartire col sovranismo oggi dilagante ma che non per questo può essere trasformata, automaticamente, nella candidata di coloro che le si sono opposti per trent’anni. Perché qui non è questione di Letta o di PD: accantoniamo per un istante i pur notevoli errori che quel partito ha compiuto nell’ultimo decennio e, in particolare, in questo tragico 2022. Qui il punto è che non potrà mai nascere un nuovo pensiero progressista se nessuno lo coltiva, se non se ne portano avanti i valori e le idee, se una determinata visione del mondo e del nostro stare insieme viene costantemente irrisa, se si sostiene, al contempo, che si tratti di un’utopia novecentesca e che ci si debba, dunque, alleare con una versione neanche troppo gentile della destra travestita da centro, il cui unico scopo sembra essere quello di prosciugare il PD e insediarsi in un luogo indistinto, peraltro senza tener conto di essere promotori di un progetto politico anti-storico, in quanto non tiene in alcun conto il conclamato fallimento della globalizzazione liberista.
Se il PD volesse accettare un consiglio non richiesto, pertanto, gli suggeriremmo di partire da qui: dal disastro dell’ultimo quarantennio, dall’idea della crescita infinita che già sul finire degli anni Novanta mostrava la corda, dal riformismo dall’alto che crea solo malessere e gonfia le vele dei cosiddetti “populisti”, dallo sgocciolamento e da altre aberrazioni che hanno caratterizzato, a lungo, il dibattito politico e dai tanti, troppi cedimenti che quel partito, anche quando si chiamava in maniera diversa, ha compiuto nei confronti di questa follia. Se oggi sono sempre meno gli elettori disposti a dargli fiducia, le domande che deve porsi sono queste. Ha sostenuto con lucidità Gianni Cuperlo che, a furia di voler essere un partito dei ceti medi, il PD si è trasformato in un partito “di ceti medi”, nel quale non è più rappresentato né presente un operaio, lontano anni luce dalla sofferenza, dal dolore e dal bisogno di emancipazione delle classi subalterne. Parole sacrosante soprattutto se associate a un altro totem contemporaneo, ossia il merito, inteso non nel senso che gli avevano attribuito i padri costituenti ma in quello dei suddetti editorialisti, sempre pronti a scagliarsi contro i “fannulloni” e a riempire pagine e pagine con i loro sproloqui, teorizzando sostanzialmente una società fondata sullo stress, sulla fatica e sul sacrificio estremo, evidentemente ignari del fatto che l’Italia è il paese di Maria Montessori e che tutto ha senso fuorché una scuola fondata sullo strazio e un lavoro svolto in condizioni disumane. Contano anche le parole, non poco, specie se si pensa che ormai allo studio sono associati solo termini negativi quando, al contrario, dovrebbe essere presentato come una fonte di gioia, di condivisione, di conoscenza, come la costruzione del proprio futuro e come uno straordinario progetto di liberazione personale e collettiva.
E le parole, ribadiamo, formano l’immaginario, forgiano il carattere delle persone e delle comunità, danno un senso al nostro stare insieme e possono rivelarsi un balsamo per l’anima, oltre che lo sprone a dare il massimo. Il merito senza l’ascensore sociale è solo disuguaglianza, discriminazione e crudeltà gratuita. Il sacrificio, senza prospettare una meta, diventa vano. La politica, senza un’ideologia che la ispiri e un orizzonte a cui tendere, diventa solo cinismo e fucina di opportunismi di diverso segno che, talvolta, si incrociano e danno vita a un ircocervo senza ragione di esistere, dannoso per sé e per gli altri, poiché finisce col bloccare risorse preziose e col far allontanare dalla cosa pubblica una miriade di persone perbene. E il giornalismo che si trasforma in manganello, che bastona chiunque osi discostarsi dai dogmi dell’uno per cento della società, che si accanisce con inusitata ferocia contro chi provi a offrire una visione del mondo alternativa e che, in fin dei conti, è sempre pronto a saltare sul carro del vincitore, a patto che il suo vero progetto sia il gattopardismo più spinto, questo genere di giornalismo, dal canto suo, è la negazione di quell’avventura intellettuale che dovrebbe svolgere la funzione di controllare il potere e aiutarlo a essere migliore. Un giornalismo così non è una palestra di libertà e pensiero critico ma un’educazione alla resa, senza sentimenti, pronta a cavalcare l’onda del populismo dall’alto, a massacrare chiunque si azzardi a esprimere un’idea innovativa, a scagliarsi senza pietà contro i veri intellettuali, per loro natura refrattari a ogni controllo e gelosi della propria indipendenza, e a ripetere la stanca litania della sinistra che non svolge il suo mestiere, quando sono i primi a non volere che lo svolga. A meno che per lorsignori la sinistra non debba svolgere, in realtà, il mestiere della destra, magari senza parolacce e senza accanirsi contro le navi delle ONG, ma con le stesse parole d’ordine, la stessa concezione della vita, la stessa analisi sul lavoro e sui rapporti di forza, la stessa pretesa che la politica sia sempre e comunque subalterna alla speculazione e alla finanza e la stessa infernale richiesta di una scuola che escluda anziché accogliere, in cui impegnarsi non sia un sogno da rendere concreto ogni giorno ma una spada di Damocle da porre sulla testa di ciascun allievo. Nel qual caso, resta solo il degrado. E la sensazione diffusa che non esistano alternative alle ricette che ci hanno condotto nel baratro, senza che nessuno abbia ancora trovato il coraggio di metterle in discussione.
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