I recenti sviluppi storici del mondo dell’immigrazione, dell’esodo di massa destinato a riverberarsi in un discorso di “flussi”, con le conseguenze di inserimento che gli stessi, in senso tecnico, comportano, del sistema di accoglienza, a sua volta effetto dei flussi e di redistribuzione dei migranti tra i Paesi europei, secondo logiche imperfette, volatili e transitorie, già suscettibili di apparire poco rispettose dei diritti dei migranti, mi stimola la seguenti riflessioni.
Gli attori in scena, sul piano della politica internazionale, sono stati, da ultimo, Italia e Francia, teatranti miopici e dallo sguardo infelicemente retrogrado. Dal canto suo l’Italia decide di chiudere i porti, per poi riaprirli, in lite con la Francia che per rappresaglia (o comodità di rappresaglia) prima punta l’indice contro l’Italia, responsabile di non accettare gli sbarchi, poi fa la stessa cosa e chiude in confini a Ventimiglia.
Non sono una politologa ma il mio occhio profano (che è quello della gente comune, che si spera essere dotata del comune buon senso) non può non scorgere quella vena inutilmente polemica, che come tutte le voci sterili sembra avere il solo obiettivo di distogliere l’attenzione dai veri punti focali delle questioni.
Oltre il piano delle brutte figure, nazionali e internazionali, le visioni, reazioni, e reciproche deduzioni critiche dei due Paesi coinvolti appaiono, è il caso di dirlo, entrambe censurabili.
La chiusura dei porti di primo approdo è sì circostanza odiosa, in quanto si fa portavoce di una arbitraria sentenza di condanna a morte, dell’uomo, che lascia in mare, e del valore umano, insito nell’uomo inteso come persona, e della persona a sua volta intesa (o, si dovrebbe dire da doversi intendere) come portatrice e titolare di diritti.
In primo luogo, la stessa idea concettuale di rifiutare soccorso all’uomo che muore (in mare, come in qualsiasi altra occasione) non si concilia con quella di una cultura tradizionalmente democratica, ma con quella di una tendenza ingiusta a etichettare la persona in base alla sua provenienza geografica prima ancora di riconoscerla come persona, realtà ontologica, uomo, e non “res”, essere vivente, dai diritti innegabili e valore universale.
Qui, la provenienza geografica, e anche sociale, diventa strumento di discriminazione; vale a dire che l’etichetta viene appiccicata alla pelle dell’individuo prima ancora di riconoscerne il valore umano universale e imprescindibile. In tale senso il comportamento è moralmente censurabile e giuridicamente non condivisibile. In ciò la Francia ha trovato l’occasione di una comoda indignazione, reiterando, appunto, quel comportamento censurabile, che già, comunque, non le era estraneo; (si ricordi la reazione, non lontana nel tempo, verso i profughi in fuga dall’Ucraina in guerra, senza essere di nazionalità ucraina, brutalmente e offensivamente respinti alle frontiere, attraverso massive espulsioni; peraltro, le testimonianze dei profughi in loco raccontano di umiliazioni patite non solo nelle forme del respingimento, materiale e formale, ma negli atti di spregio verbale e rude crudeltà; ancora nella parentesi apro una ulteriore parentesi, osservando che le espulsioni formali dell’area Shengen hanno sempre, qualora comunicate, un impatto molto forte inibendo l’accesso ai Paesi dell’area per un numero reiterato di anni e spesso nonostante eventuali successive vie legali di accesso).
Nella impetuosa querelle, cui purtroppo si assiste nell’alternanza di fasi storiche, l’Unione Africana siede inopportunamente placida e inerte, incapace di formulare idee, soluzioni, o proporre programmi di pace e integrazione. E a questo punto vorrei chiedermi perché e a quale predestinato movimento si piegano le pedine compiacenti dello scacchiere internazionale.
L’Africa, mi spiace dirlo, dal punto di vista dell’Unione, appare un corpo senz’anima e senza apparente volontà, incapace di affrancarsi dal colonialismo e dalle scelte di un partner che spesso impone restando nell’ombra; i corridoi umanitari, gestiti dall’Europa, sono lenti e appesantiti dalla burocrazia; l’accoglienza langue, arranca e, quando funziona, è lasciata nelle mani di pochi volontari di buon cuore; piazza Garibaldi a Napoli, quale emblema di una piazza qualunque di un paese europeo, brulica di senza tetto e senza patria (magari fossero senza patria, almeno godrebbero dei diritti dell’apolidia!).
Io non ho soluzioni, o non ho l’arroganza di presentare soluzioni, ma non posso fare a meno di osservare che lo svicolare dalle responsabilità sotto il manto della facile vena polemica, la fuga dal dialogo nella voce generale concitata che si agita solo per non dire nulla, l’incapacità di affrancarsi dai giochi di potere cui si piega, accondiscendente per scelta, o per mancanza di scelta, l’Unione Africana, rappresentano, nel complesso, la realtà storico-sociologica di un mondo occidentale che appare vecchio e non sa svecchiarsi, e di un mondo africano che appare giovane negli anni medi della sua popolazione costretta alla fuga e asservita alle esigenze dettate da altri.
La mia missione odierna è lanciare una provocazione: stimoliamo il pensiero libero, ci abitua alla critica, alla disamina dei fatti senza paura, alla parola libera… e libera espressione della parola… sviluppiamo la benevolenza nei confronti del mondo, degli altri, ci restituisce la pace interiore… e forse anche quella internazionale.
Ricordando Felix Houphouet Boigny ex Presidente della Costa d’Avorio “La pace non è una parola, è nel comportamento di ognuno di noi”.
Sono in pace con il mondo.
Con affetto.
(Fatou Diako è Presidente Associazione Articolo21 Campania)
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