Il Novecento è stato un secolo tremendo ma, al tempo stesso, ricco di grandezza. Nel mondo della cultura e dell’arte in particolare, innanzitutto nella letteratura e nel cinema, favorendo la crescita della società e l’emancipazione delle classi sociali più deboli. Basti pensare a José Saramago, di cui in questi giorni esce “La vedova”, il suo primo romanzo, inedito in Italia, ricco di spunti di riflessione e già capace di lasciar intravedere il fantastico narratore che sarebbe diventato. Nel Saramago dei vent’anni erano già racchiusi, infatti, i tratti peculiari di uno dei più importanti romanzieri che siano mai esistiti, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita e al quale dobbiamo una parte significativa della rinascita del Portogallo post-salazarista. Saramago da Azinhaga è stato, inoltre, uno dei miti della mia generazione, formatasi grazie al Pereira di Tabucchi e alle speranze che quell’anziano giornalista, interpretato al cinema dall’ultimo Mastroianni, ha saputo suscitare nel nostro immaginario.
Di Saramago abbiano amato le opere di fantasia, le provocazioni, le invettive, le riflessioni sociali, le battaglie in nome di una società migliore, il coraggio politico e civile, il suo ripudio di ogni dittatura e la sua forza d’animo, fino alla fine, quando ci ha detto addio, nel giugno del 2010, all’età di ottantasette anni. Premio Nobel per la Letteratura nel ’98, raramente il riconoscimento è stato più meritato, trattandosi di un autore che ha senza dubbio rivoluzionato il nostro modo di intendere lo stare insieme, ponendo il bene comune al centro di ogni discussione e sconfiggendo, almeno nel nostro animo, una parte dell’odio, della ferocia e dell’orrore che dominano la quotidianità.
Saramago è, dunque, un balsamo per l’anima, una forma di speranza, un sognatore che non si è mai arreso e una coscienza critica che ci manca maledettamente, anche se per fortuna la sua eredità è enorme e ci tiene compagnia con pensieri e parole destinati a conficcarsi dentro di noi e a non abbandonarci più. Potremmo considerarlo alla stregua di una spada, colma non di ferocia ma di dolcezza, buonsenso e amore per la vita, destinata a rimanere con noi e a guidarci soprattutto nei momenti più difficili.
Angela Lansbury, invece, giunse in America durante la Seconda guerra mondiale in fuga da una Londra travolta dai bombardamenti, e si affermò giovanissima come attrice, incantando poi Broadway e rivelando un talento non solo recitativo ma anche come cantante, in virtù di una voce straordinaria che ha conquistato chiunque abbia avuto la fortuna di ascoltarla. Tuttavia, per noi la Lansbury sarà per sempre Jessica Fletcher, la scrittrice di gialli del Maine che ha segnato la nostra infanzia e la nostra adolescenza, protagonista di una fortunatissima serie e capace di unire più generazioni, anche per via di una modalità investigativa particolare e ricca di umanità, molto europea, quasi italiana e pertanto amatissima nel nostro Paese, al pari di un personaggio in cui tutte e tutti ci siamo identificati.
Una generazione che se ne sta andando ma alla quale dobbiamo moltissimo. Un secolo che sta si definitivamente concludendo e su cui adesso si possono cominciare a scrivere pagine di verità, senza dannazioni insensate e controproducenti, riconoscendone il dolore ma, al contempo, l’immensità.
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