L’entrata dell’ex direttore del Tg2 della Rai Gennaro Sangiuliano nella compagine di governo -come ministro della cultura- è come il colpo di inizio della probabile girandola della e nella ragnatela del servizio pubblico.
Se è verosimile che l’abile neo presidente del consiglio Meloni non abbia intenzioni di strafare subito, non c’è da aspettarsi niente di buono. L’azienda di viale Mazzini di Roma, infatti, è considerata trasversalmente un bottino prelibato, un simbolo della presa del palazzo, d’inverno o d’autunno che sia. E si sa che la conquista dell’apparato mediale appartiene ai desideri del ceto politico, che suppone di incrementare i propri consensi mettendo le bandierine sulle testate. In verità, numerosi studi hanno dimostrato che più di un minuto di intervista con lo sguardo in macchina e la recitazione di una filastrocca contano le innumerevoli trasmissioni della giornata (il cosiddetto day time), che formano coscienze e clima di opinione. Va detto che la strisciata di programmi di intrattenimento è omologa: qui il telecomando può cercare – invano- un canale che faccia la differenza. Eccezioni a parte.
Assisteremo, quindi, prima o poi all’arrembaggio. Del resto, la Rai talvolta anticipa le scosse del sistema politico, ma comunque le registra sempre fedelmente. Il tg1 è, naturalmente, la prima scelta della lottizzazione in camicia nera. Vedremo. Le organizzazioni sindacali si facciano valere. E, magari, il consiglio di amministrazione batta un colpo.
Già nei giorni passati, però, uno smottamento si è visto e sentito. Rainews ha mostrato prontamente un riposizionamento tanto nella conduzione del direttore quanto negli ospiti. Al confronto la concorrente Tgcom mostrava maggiore equilibrio. La carrellata conformista è piuttosto omogenea, con l’eccezione (senza esagerare) del Tg3 che ha probabilmente la forza di una storia diversa.
Tuttavia, se le testate rischiano di colorarsi di scuro, i conti dell’azienda pubblica viaggiano verso il profondo rosso. Tutto ciò avviene, tra l’altro, nel disinteresse generale, visto che l’attenzione è rivolta esclusivamente agli organigrammi.
Il bilancio dell’anno in corso potrebbe chiudersi con un deficit di parecchie decine di milioni, che i conti del 2023 – secondo le previsioni- peggioreranno ulteriormente.
Pesano il calo sensibile delle entrate pubblicitarie (oltre un miliardo di euro nel 2010, meno di 500 milioni oggi:-15,7% nel periodo gennaio-agosto rispetto al 2021), il vorticoso aumento dei costi dell’elettricità, l’incertezza sulla sorte dello stesso canone di abbonamento. Quest’ultimo è ormai un esercizio demagogico delle campagne elettorali, con l’effetto di rendere incerto il destino della risorsa fondamentale.
I conti in rosso sono l’avvisaglia di un problema strategico: qual è la missione della Rai? Di fronte all’ennesimo Risiko nella comunicazione classica con liti e nuove concentrazioni, davanti all’egemonia acquisita stabilmente dalle Big Tech e alla guerriglia dei social, l’ex monopolio ha l’onere di ridefinirsi e di reinventare visioni e progetti. L’audience è in decrescita e gli antichi 27 milioni di telespettatori del prime time sono un miraggio, salvo che con le partite della nazionale di calcio o il Commissario Montalbano.
Uno strumento utile sarà il contratto di servizio (2023-2027), da scrivere alla luce dei movimenti del settore e dell’urgenza di disegnare l’identità pubblica nell’età crossmediale. Il digitale non è un’aggiunta, bensì una trasformazione.
Il quadro si sta velocemente modificando pure sotto il profilo tecnologico.
L’Unione internazionale delle telecomunicazioni (Uit) nel 2023 ricollocherà un blocco di frequenze oggi utilizzate dalla televisione (600 MHz) nelle fauci fameliche della telefonia. Che accadrà alla Rai?
Insomma, il destino sta attuando ciò che i privatizzatori hanno sempre sognato: una Rai ridimensionata e definitivamente assoggettata ai poteri esterni. Mediaset, complice e concorrente, non ride perché non va a gonfie vele. Però, sta al governo. E Giorgia Meloni non ha neppure menzionato il conflitto di interessi.