BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

La parola patria di Piero Calamandrei

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«Il vero volto della patria». Una bella immagine, forte, la forza di quell’aggettivo: vero. Non è un’espressione letteraria, è un’espressione del vissuto di chi l’ha pronunciata: Piero Calamandrei. Una memoria personale inserita in un discorso che si può definire una pagina di storia. La data: 15 settembre 1944. Il luogo: l’aula magna dell’Università di Firenze di cui Calamandrei, professore di Diritto processuale civile, è rettore. Sono passate solo due settimane dalla liberazione di Firenze, costata lacrime e sangue in una battaglia di venti giorni, combattuta rione per rione, casa per casa, dall’11 agosto al 1° settembre, la battaglia dell’indimenticabile episodio fiorentino del film di Rossellini, Paisà. Nella città dalle torri crollate, dai ponti fatti saltare dai tedeschi in ritirata, l’Università, quel 15 settembre, «riapre le sue aule – dice Calamandrei – e riprende i suoi pacifici studi».

Davanti ai professori e agli studenti, al sindaco, al questore, al comandante dei carabinieri, designati dal Comitato di liberazione che ha fatto in modo da dare subito un governo alla città, e alla presenza del comandante delle truppe alleate a Firenze, Calamandrei ripercorre la “sciagurata vicenda” dell’Italia sotto il fascismo, e lo fa con il «sentimento volto alle terre dove si combatte e dove altre città d’Italia attendono ancora sotto il giogo l’ora della libertà», e col ricordo di chi, «pur di non inchinarsi alla tirannia, ha consapevolmente preferito andare incontro alle sofferenze, alle persecuzioni, alle carceri e spesso alle fucilazioni». In queste dure prove si è formata la «coscienza civile della nuova Italia» e la libertà, «riacquistata col nostro sangue e col nostro pianto, è finalmente meritata; e nessuno saprà più strapparla al nostro dolore». A questo punto del discorso, Calamandrei rende pubblico, in un’occasione solenne, quello che fino allora aveva conservato nel suo liber amicorum: «Io ricordo che negli anni pesanti e grigi nei quali si sentiva avvicinarsi la catastrofe, facevo parte di un gruppo di amici che, non potendo sopportare l’afa morale delle città piene di falso tripudio e di funebri adunate coatte, fuggivamo ogni domenica a respirare su per i monti l’aria della libertà, e consolarci tra noi coll’amicizia, a ricercare in questi profili di orizzonti familiari il vero volto della patria». Riproporrà quella memoria l’anno dopo, a Roma, in un’aula di giustizia, nell’arringa di parte civile al processo per l’assassinio dei fratelli Rosselli, Carlo e Nello, uccisi in Francia il 9 giugno 1937 da sicari fascisti: «Negli ultimi anni quando, a partir dall’ascesa di Hitler al potere e dalla avventura etiopica, sempre più si sentiva approssimarsi l’ombra della catastrofe e l’oppressione fascista si faceva ogni dì più pesante, il nostro gruppo di amici partiva ogni domenica di buon mattino dalla città rintronata dagli ululati delle adunate coatte, e prendeva la via dei monti, in cerca della libertà perduta».

Nel gruppo di amici c’erano Guido Calogero, Alessandro Levi, Pietro Pancrazi, Luigi Russo, Nello Rosselli, Manara Valgimigli, Ugo Enrico Paoli, Adolfo Omodeo, Attilio Momigliano, talvolta Benedetto Croce, Leone Ginzburg, Franco Antonicelli. Iniziate nel 1935, le passeggiate finiscono con la guerra: la prima volta a Montepulciano, l’ultima a Recanati. “Poi il cataclisma ci disperse e ci separò”, così conclude Calamandrei la rievocazione di quelle evasioni domenicali. in un articolo per il numero di aprile 1953 della sua rivista, “Il Ponte”, nel quale ci dà in tre parole la chiave per entrare nello spirito di quelle passeggiate: “paesaggi con figure”: al castello di Romena, Dante; a Certaldo, Boccaccio; a Figline Valdarno, Marsilio Ficino; a Monterchi, Piero della Francesca; a Recanati, Leopardi; a Bolgheri, Carducci. Andavano in cerca di quei paesaggi con figure spinti dal desiderio di ritrovare «una tradizione di civiltà, della quale ciascuno di noi, durante la settimana, aveva creduto, nei momenti di maggior scoramento, di avere smarrito il senso».

È fatta di paesaggi la patria di Calamandrei, di «paesaggi vivi come persone», si legge nell’ultima pagina di un libro che scrive tra il 1940 e il ‘41, Inventario della casa di campagna, in cui troviamo la sua idea di patria nel racconto della passeggiata alle rovine di Cosa. Calamandrei descrive le mura, la grande porta, l’ingresso nella città, dove in mezzo alla boscaglia «affiorano tracce di muretti coperti di edera e di vitalbe» che si rivelano «tronconi di pareti crollate, cantonate di strade sommerse dalla vegetazione», impiantiti spaccati, piante «scoppiate a caso in mezzo alle antiche stanze». Di fronte a questi segni della vita che fu, Calamandrei si ferma in questa riflessione: «Tutte le fantasticherie che si possono sognare da una finestra che dà sul mare furono sognate quassù, più di duemila anni fa, da uomini ai quali noi somigliamo anche nel volto … Forse è proprio questa consapevolezza della sorte comune che ci rende così cara e così familiare questa terra: il saper che in questa vegetazione che rinasce da millenni su questo strato sempre più spesso di macerie si sono mescolate e fuse le vicende umane che oggi per un istante si incarnano in noi, ci fa sentire per questa terra, anche per i suoi sassi e per i suoi arbusti una struggente tenerezza». E così prosegue: «Nello scendere per lo stesso sentiero mi sorprendo mentre mormoro tra me una parola nuova, che mi pare, da quanto è misteriosa e fresca, inventata ora: patria’. E passando accanto a un cespo di biancospino, fiorito su queste macerie, non so tenermi dal fargli, furtivamente, una carezza».

«Quello che Calamandrei vedeva intorno a sé – ha scritto Alessandro Galante Garrone – non era più la patria, la sua patria». C’è una sincerità carica di dolore nelle memorie che Calamandrei affida al diario sul volto della patria in cui non può riconoscersi: «Tornando domenica dalla nostra gita a Viterbo, il treno era ingombro di reduci dalla Spagna: raccontavano, con tono da milites gloriosi, imprese da inorridire: il furto sistematico nelle città abbandonate dagli abitanti, orribili rappresaglie contro chi si difendeva», annota il 14 giugno del ‘39. Dieci giorni prima, scriveva: «Per capire l’atteggiamento vile e contraddittorio delle ‘classi colte’ di fronte alla situazione italiana attuale bisogna aver assistito ieri all’adunanza di facoltà. Tutti d’accordo nel desiderare la pace: nel proclamare che l’Italia vuol la pace … Tutti d’accordo però nel proclamare che se scoppia la guerra la colpa è della Francia … Che un consesso di persone che rappresentano la ‘cultura superiore’ capovolga così la realtà e non capisca che chi vuol la pace non può che odiare a morte i pochi malviventi che da decenni preparano la guerra, è veramente sconfortante e doloroso. Questa gente si merita questo padrone». E nei giorni in cui infuria la battaglia tra gli alleati e i tedeschi in Norvegia, alla data del 24 marzo 1940 si legge: «Sono notizie che mi fanno salire le lacrime agli occhi, perché gli inglesi e i francesi e i norvegesi che difendono la libertà sono ora la mia patria».

È il linguaggio dei sentimenti a guidare la penna di Calamandrei quando scrive della patria: amore, tenerezza, intenerimento, attaccamento. «C’era prima di tutto un grande amore, proprio direi una grande tenerezza, per questo paese dove anche la natura è diventata tutta una creazione umana … Era questo amore, che nelle nostre passeggiate ci guidava e ci commoveva; e lo sdegno contro la bestiale insolenza di chi era venuto a contaminare colla sua presenza l’oggetto di questo amore e a preparar la catastrofe (che tutti sentivamo vicina) di questa patria così degna di essere amata». L’amor di patria Calamandrei l’aveva dichiarato nel 1915, partendo da volontario per la Grande Guerra. E lo manifesterà nell’Assemblea costituente, sulla rivista Il Ponte, nelle battaglie civili, nelle scelte che ha fatto come avvocato in processi che chiamavano in causa il volto dell’Italia, prendendo le difese di Renzi e Aristarco per la libertà di stampa e della non violenza di Danilo Dolci.

Le passeggiate, dolorose, silenziose, appartate, Calamandrei e i suoi amici le vivono come un atto di resistenza, la dimostrazione prima di tutto a sé stessi di non voler cedere all’idea che l’Italia della giustizia, della libertà, dell’umanità, della pietà – i valori che Calamandrei riconosceva nel vero volto della patria – non ci fosse più, definitivamente spazzata via dal fascismo.

Se vogliamo cogliere appieno lo spirito di quella ricerca del vero volto della patria dobbiamo prendere in mano la lettera che Calamandrei scrive, alla notizia dell’assassinio di Nello Rosselli, alla vedova, Maria Todesco: «Gentile Signora, non ho saputo trovare altro modo più eloquente per esprimerLe il mio dolore che questo di mandarLe qualche immagine del nostro Nello, tratta dalle fotografie delle indimenticabili passeggiate domenicali che erano alla fine di ogni settimana, come un’attesa evasione dalla prigionia; e che ora nel ricordo sono una ragione per riempire di tristezza tutte le nostre giornate e per non poter posare gli occhi su paesi e su monti senza pensare a lui con un nodo alla gola». È nello sguardo di Piero Calamandrei su quei paesi e quei monti il vero volto, il volto umano, della patria.


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