A 74 anni dalla dichiarazione d’indipendenza dello Stato di Israele, l’espulsione di massa e l’allontanamento di 700.000 palestinesi dalle loro città, la nakba (la catastrofe) è stata incisa nella coscienza palestinese come una storia di usurpazione, che non conosce ancora la parola fine. Sofferenza, sfollamento dai propri territori, smembramento di interi gruppi familiari a cui Amnesty International ha dedicato 4 anni di ricerche, raccogliendo le conclusioni in un lungo rapporto, pubblicato il 22 febbraio scorso. Il titolo fa tremare le vene e i polsi: “L’Apartheid di Israele contro la popolazione palestinese: un crudele sistema di dominazione e un crimine contro l’umanità”. Il sistema di separazione razziale in Sudafrica durato fino all’inizio degli anni ‘90, che pensavamo sigillato ormai nei libri di storia contemporanea, riappare con prepotenza. Apartheid è la definizione che di recente un operatore umanitario della Comunità fondata da Don Oreste Benzi ha dato alla condizione di segregazione dei siriani nei campi profughi libanesi. E il termine viene riesumato pure dall’ong per i diritti umani per denunciare il trattamento dei palestinesi nello Stato ebraico e nei territori di Cisgiordania e Gaza. «Negare una casa ai palestinesi è al centro del regime di apartheid imposto da Israele ai palestinesi. L’espropriazione delle proprietà non si è fermata e la nakba è diventata l’emblema dell’oppressione, che i palestinesi devono affrontare ogni giorno da decenni».
Si legge nel rapporto, che prosegue: «Oggi, oltre 5,6 milioni di palestinesi rimangono rifugiati e non hanno diritto al ritorno. Almeno altri 150.000 corrono il rischio reale di perdere la casa a causa della brutale pratica israeliana di demolizioni di case o sgomberi forzati». Scontata la reazione rispetto a quel resoconto. “Hamas, Hezbollah e Iran vogliono eliminare Israele come lo conosciamo, ma chi avrebbe mai pensato che avrebbero trovato alleati in Amnesty International?”. Titolava un editoriale del Wall Street Journal, «ignorando la sostanza del rapporto, definendolo diffamatorio – scrive Chris McGreal nel “The Guardian” all’indomani della pubblicazione del report-. Negli Stati Uniti è stata un’ondata di indignazione orchestrata, indignazione che non solo nega ciò che molti eminenti israeliani sostengano sia vero ma, in effetti- prosegue il giornalista- nega il loro diritto di dirlo». Il catalogo si arricchisce con le dichiarazioni di gruppi americani che si dichiarano filo-israeliani e con le potenti di lobby sioniste che accusano Amnesty di cercare di demonizzare e delegittimare lo Stato ebraico e democratico di Israele. Accuse pesanti, rivolte a chi si è soffermato in quei territori non per poche brevi settimane, ma per anni.
E al coro di critiche il 4 ottobre scorso rispondono da Sassari, durante un incontro organizzato dall’associazione Ponti non muri il portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury, la redattrice capo di “The Palestine Chronicle” e Alessandra Fabbretti, giornalista dell’agenzia “Dire”. «Ci sono ragioni profonde se Amnesty, dopo anni di ricerca, ha utilizzato la parola apartheid, una grave violazione dei diritti umani protetti a livello internazionale- spiega Noury-. Un termine che indica in modo inconfutabile sistemi di dominazione, oppressione, controllo di un gruppo su un altro: in questo caso del governo israeliano, di più governi nei confronti della popolazione palestinese.
La ragione per cui abbiamo deciso di utilizzare questo approccio complessivo alla situazione descrivendola in un unico termine, è che abbiamo realizzato come fosse insufficiente denunciare la singola violazione dei diritti umani. Per segnalare, ad esempio, i crimini di guerra commessi durante le ripetute violazioni militari di Israele contro Gaza, il sistema della detenzione amministrativa, le limitazioni alla libertà di movimento. Tutti questi elementi presi insieme costituiscono il sistema dell’apartheid. Il rapporto non è stato ben accolto dal governo di Israele e non solo- prosegue-. Credo che il rimprovero che possa essere fatto ad Amnesty non è di aver accusato Israele di apartheid, ma di esserci arrivata per ultima. Quel termine l’hanno usato altre organizzazioni internazionali per i diritti umani come Human rights watch https://www.hrw.org/news/2021/07/19/israeli-apartheid-threshold-crossed, meccanismi dell’Onu in difesa dei diritti umani e un ex capo del Mossad, per descrivere una tendenza di Israele verso quel tipo di situazione e per mettere in allarme. Rubeo va oltre. «La semplice presentazione del rapporto di Amnesty sull’apartheid di Israele, altrove, è stata bloccata, per i motivi che ormai tutti conosciamo: le pressioni della lobby sionista e lo spauracchio di accuse infondate spaventano istituzioni e università in tutto l’Occidente». Poi argomenta quanto rileva nel suo lavoro di reporter: «Quando sui social pubblichiamo le notizie sulla Palestina, la gente incredula ci chiede se corrispondano al vero, perché sembrano surreali. State esagerando? E’ la domanda più frequente. Il nostro giornale ha sede negli Stati Uniti- continua- dove è presente una delle lobby sioniste fra le più potenti al mondo, dunque se noi scrivessimo notizie infondate, saremmo ogni giorno dentro le aule dei tribunali. Sono due le ragioni per cui i lettori finiscono per non credere a ciò che leggono. La prima è legato al fatto che queste notizie non arrivano mai al mainstream e non riescono quasi mai a rompere quel muro issato dalla stampa generalista.
La seconda, è che sono troppo crude». Quindi, porta un esempio per tutti, quello di un prigioniero politico di 20 anni, in carcere da quando ne aveva appena 13. «Al momento dell’arresto, è stato investito due volte da un colono- racconta- mentre il cuginetto che gli era vicino è stato ucciso. Trasferito in carcere, è stato legato al letto per ventiquattro ore e non gli è stato permesso di vedere i suoi genitori per giorni. A seguito del trauma subito, ha sviluppato dei deliri paranoidi, vicini alla schizofrenia». Rubeo cita un’intervista a Noam Chomsky, nel corso della quale le avrebbe detto delle difficoltà a usare il termine apartheid in riferimento alla Palestina. «A differenza di quello Sudafricano, che era incline a mantenere la popolazione soggiogata per avere una manodopera a basso costo- riferisce la giornalista del Palestinian Chronicle- l’apartheid israeliano in quanto figlio del colonialismo di insediamento, tende alla cancellazione dell’altro. Infatti, fin dagli albori del sionismo, la popolazione arabo-palestinese nativa è vista come una minaccia esistenziale al colonialismo». Pure Alessandra Fabbretti, giornalista che da anni si occupa di Medio Oriente, difende l’operato di Amnesty International e spiega: «L’incontro a Sassari ha provato a sfondare quel silenzio, quel muro di doppi standard che impediscono tra i media e la politica italiana mainstream che temi del genere facciano rumore. In una società normale scoppierebbe un caso.
E invece ci tagliamo ciocche di capelli come forma di attivismo che seleziona le cause, risparmia tempo e si scaglia contro ciò che è “nemico” e “condannabile” così come qualcuno ha stabilito al posto nostro, senza analisi, approfondimento storico né coerenza. Da gennaio- conclude Fabbretti- sono 109 le persone uccise dalle forze israeliane in Cisgiordania: in 280 giorni, sono 2,5 al giorno. Tra queste anche Ryan, di 7 anni: il suo cuore si è fermato quando dei soldati israeliani hanno fatto irruzione a casa sua». Ma queste cose non si raccontano più. La guerra alle porte dell’Europa, lo spauracchio dell’atomica tattica, hanno fatto calare il sipario su tutte le altre crisi irrisolte del pianeta.