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La decisione di chiedere l’archiviazione dell’inchiesta sul sequestro di padre Paolo Dall’Oglio lascia a dir poco sorpresi

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La decisione della procura di Roma di chiedere l’archiviazione dell’inchiesta sul sequestro di padre Paolo Dall’Oglio, sparito a Raqqa il 29 luglio 2013, lascia a dir poco sorpresi. I magistrati sostengono che non sia possibile arrivare ad accertare la sua sorte, cioè se sia stata ucciso o se sia ancora in vita.

Stando a quanto reso noto dalla stampa italiana ieri – 12/10/2013 -, la ricostruzione dei fatti ottenuta dai magistrati sostiene che Dall’Oglio sia stato sequestrato a Raqqa, ma non dall’Isis di Raqqa come sembrerebbe più logico, bensì dall’emiro dell’Isis in piccolo centro, Karama. Dunque, questo emiro avrebbe sconfinato, sarebbe entrato in una città non sotto il suo controllo e avrebbe prelevato l’ostaggio per portarlo nel suo territorio. Aggiungo che quel territorio dista una trentina di chilometri da Raqqa: a quel tempo le strade erano piene di check-point di tutti i tipi, anche quelli dei nemici dell’Isis. Una volta portato l’ostaggio nella sua zona, l’emiro lo avrebbe ucciso. Tale ricostruzione, a mio avviso, non è verosimile, semplicemente perché porta a scagionare totalmente i capi dell’Isis di Raqqa. Ricordo che l’autore del racconto – giunto ai magistrati tramite l’Unità di Crisi -, a quel tempo, lavorava proprio per l’Isis di Raqqa.

Ero ben al corrente, da tempo, da fonti siriane, della versione che porterebbe all’emiro di Karama, ma, proprio per le stranezze accennate, questa non mi ha mai convinto. Giustamente, la stessa magistratura ritiene che ciò non basti a concludere che le cose siano andate effettivamente così. Per cui non capisco perché i magistrati italiani abbiano citato proprio tale inattendibile versione. In ogni caso si tratta di una tesi indimostrata. Ci sono altre varianti, a mio avviso, più verosimili.

Trovo poi strana la ricerca del corpo di Paolo – tramite riconoscimento del DNA – compiuta tra i resti di alcuni cadaveri di detenuti rinvenuti nelle fosse comuni di Raqqa: non poteva consentire di identificare la sua salma. Infatti, un religioso cristiano – e in quanto tale nella loro visione impuro – non sarebbe mai stato sepolto dagli integralisti dell’Isis in fosse comuni. Per me è molto evidente.

C’è poi – in quanto pubblicato dai giornali dopo la richiesta di archiviazione – un punto molto importante, da evidenziare: vi si afferma che padre Paolo avrebbe perorato la liberazione dei due vescovi siriani sequestrati in quei tempi. Anche di loro, purtroppo, non si è più saputo nulla. Il riferimento a questo tentativo di padre Paolo non mi era mai stato fatto. Mentre è noto che, per anni, anche dopo la sparizione di Paolo, la trattativa sui vescovi è stata condotta dall’intelligence libanese, mai precisando che si stesse trattando con l’Isis. Se il gesuita fosse stato a Raqqa per i vescovi non dovrebbe essere difficile appurarlo, poiché se davvero padre Paolo avesse intrapreso quel tentativo ne avrebbe informato i vertici ecclesiali siriani.

Venendo a ciò che, per me, costituisce il nocciolo della vicenda, pongo la questione in altri termini. Di fatto lui è scomparso a Raqqa. Ora appare a me sempre più evidente che tra i protagonisti del caso nessuno vuole che si sappia cosa è realmente accaduto, in modo che a padre Paolo non vada riconosciuto un posto certo, né tra i vivi né tra i morti, a fini di rimozione della sua figura. Perciò ritengo che l’inchiesta non vada affatto archiviata.

Capisco che, per proseguire le indagini, servano delle ragioni, mentre, purtroppo, si sta brancolando nel buio. Qualche ragione c’è. Ma non la cercherei al seguito di personaggi con facile vocazione al depistaggio. Naturalmente non ho certezze. Procedo per sensazioni: i pochi affidabili, quelli da ascoltare per proseguire le indagini, non vanno cercati tra le fila dell’Isis, bensì tra gli amici di padre Paolo, quelli che lo hanno ospitato a Raqqa. Loro sanno quel che lui disse e fece in quei giorni. O cosa sussurrò. Uno di loro – da poco rifugiato in Europa -, in passato detenuto dell’Isis, mi ha detto che quel 29 luglio del 2013 accompagnò Paolo al quartier generale dell’Isis. All’improvviso gli chiese perché stava andando là: a che pro? Paolo, messo alle strette da un amico così caro, gli avrebbe detto che i vertici del Kurdistan iracheno gli avevano affidato un messaggio per i loro peggiori nemici, ossia i capi dell’Isis. Cosa aveva davanti, in quel momento, Paolo?

Ascoltare quell’amico aiuterebbe a capire che, anche in assenza di prove, vale comunque la pena di procedere con le indagini, magari chiedendo a figure importanti del tempo conferme o smentite degli indizi: ad esempio chiedendo ai curdi, oppure ai vescovi.

Le voci poco attendibili di chi sembra più coprire che scoprire la verità, non le terrei in grande considerazione. Considererei piuttosto il grande potenziale culturale, sociale, spirituale e politico che il monastero di Deir Mar Musa e tutta la missione di padre Paolo Dall’Oglio rappresentano – quale importante testimonianza cristiana e italiana – in Siria e in tutto il Mediterraneo. Tale testimonianza va compresa in tutto il suo spessore, tutelata e valorizzata. Mentre il suo e nostro Paese, a mio avviso, la sta trascurando. Il capitale umano ha un gran valore, per tutti.

Vorrei proprio che l’archiviazione del caso di padre Paolo, non avesse luogo, specie ora, ma forse più per noi italiani – per la Chiesa italiana – più che per lo stesso Paolo.

Fonte: SettimanaNews


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