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Il Pd a-socialdemocratico

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Le dimissioni di Letta da subito sono sul tavolo. Il segretario del Pd prende immediatamente atto del disastro elettorale, mette in moto la macchina organizzativa: congresso costituente e nuovo leader.

Enrico Letta si carica sulle spalle tutta la responsabilità della clamorosa sconfitta nelle elezioni politiche del 25 settembre: il Partito Democratico ha raccolto appena il 19,1% dei voti e il centro-sinistra solo il 26,1%. Lo sgretolamento ha aperto la strada alla vittoria del destra-centro, la coalizione egemonizzata per la prima volta nella storia da Fratelli d’Italia, il partito post fascista guidato da Giorgia Meloni.

Il risultato da incubo avuto da Enrico Letta è migliore solo rispetto al 18,7% spuntato da Matteo Renzi nel 2018. Forse però è peggiore perché Letta ha sommato anche i voti degli alleati alle urne: quelli di Articolo 1-Movimento Democratico e Progressista di Bersani-Speranza e quelli del Psi di Maraio.

Troppi errori, dimissioni di Letta. Sul piano del metodo: il segretario del Pd non ha portato a casa né un’intesa elettorale con il M5S di Conte né con i centristi di Calenda-Renzi mentre il destra-centro ha marciato compatto col tridente Meloni-Salvini-Berlusconi. Troppi errori anche nel merito: il programma incerto tra agenda Draghi, diritti civili e qualche sortita sui diritti sociali. Risultato: ha perso voti a sinistra verso Conte invece di guadagnarli, analoga emorragia di consensi centristi c’è stata verso Calenda-Renzi.

Il problema è antico: i contenuti sono incerti perché l’identità politica del Pd è sbiadita, non è né di sinistra né di centro. Sbanda tra varie gradazioni liberaldemocratiche, il riformismo deficitario oscilla tra liberismo e assistenzialismo.

Così il Pd dal 2007, anno della fondazione, ha collezionato ben otto segretari: Veltroni, Franceschini, Bersani, Epifani, Renzi, Martina, Zingaretti, Letta. Ad ogni sconfitta elettorale ha cambiato segretario. Ma l’identità, però, è restata incerta: più a sinistra con Bersani, più al centro con Renzi. Ma non c’è stata chiarezza, tutti hanno fallito. La trasformazione del Pd in una forza liberaldemocratica, teorizzata da Carlo De Benedetti e da Eugenio Scalfari, non ha funzionato: il partito ha perso il suo antico radicamento sociale a sinistra. Nando Pagnoncelli, numero uno dell’istituto di sondaggi Ipsos, ha analizzato i risultati elettorali delle politiche: Fratelli d’Italia è diventato «il partito più votato dagli operai», poi seguono il M5S e la Lega. Tra le tute blu «solo al quarto posto c’è il Pd», osserva Pagnoncelli. In sintesi: il Pd è diventato il partito della borghesia dei centri storici, dei quartieri residenziali ed è scomparso dalle periferie abitate da operai, precari e immigrati.

Le dimissioni di Letta sono uno scossone. La strada indicata è un cambiamento radicale, quella di un congresso costituente per dare vita a un «nuovo Pd». Tutto sarebbe in discussione, anche il nome. Cominciano a circolare le candidature da nuovo segretario: Stefano Bonaccini ed Elly Schlein (rispettivamente presidente e vice presidente della regione Emilia-Romagna), Paola De Micheli (ex ministra delle Infrastrutture nel governo Conte due). Due sindaci sono tentati dalla sfida: Dario Nardella (Firenze) e Antonio De Caro (Bari). Potrebbe scendere in campo anche l’effervescente Vincenzo De Luca, presidente della regione Campania.

I nomi non mancano, altri arriveranno. Tuttavia della questione dirompente dell’uguaglianza non si parla. Sul nodo dell’identità e del progetto politico per sconfiggere le disuguaglianze sociali è nebbia fitta come in passato. Non ha futuro un partito di sinistra senza la bussola dell’uguaglianza. Già nel 2008 Massimo D’Alema denunciò i problemi del Pd: «Siamo un amalgama sin qui mal riuscita».

Molto prima di lui lo fecero Napoleone Colajanni ed Emanuele Macaluso. I due uomini della destra del Pci bocciarono la svolta confusa di Achille Occhetto perché vedevano il rischio di creare un partito radicale di massa, liberaldemocratico mentre invece proponevano la costruzione di un partito socialdemocratico.  Le disuguaglianze in Italia aspettano sempre una soluzione sulla base di un progetto di società più giusta e vivibile. Le disuguaglianze da anni aumentano rischiando perfino di ferire la democrazia. La lunghissima metamorfosi del Pci-Pds-Ds-Pd ancora non vede l’approdo in un partito pienamente riformista, socialdemocratico.


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