“Ragtag”, di Giuseppe Boccassini, Ita-Fra-Ger., 2022
Chi pensasse che il film di Giuseppe Boccassini, presentato di recente alla Mostra del cinema di Venezia, sia un documentario sul genere noir, si accorgerà vedendolo di essersi sbagliato. Da anni si discute sulla logica stessa della distinzione tra fiction e documentario. Il grande Manoel De Oliveira, per tagliare corto, affermò che il documentario, che anch’egli aveva genialmente frequentato fin dai suoi esordi, non era altro che un film di fiction con interpreti reali. Mai definizione fu più esatta e calzante. E forse il successo di pubblico, oltre che di critica, che questo genere ha riscosso negli ultimi anni sta a testimoniare di una nuova percezione finalmente acquisita da parte dello spettatore. Autori come Gianfranco Rosi, Alberto Fasulo, Roberto Minervini e Alina Marazzi, hanno messo in primo piano, nel nostro paese, un cinema da sempre relegato nelle sale d’ essai che, fortunatamente, lo accoglievano.
Il lavoro di Boccassini, in particolare, potrebbe sembrare, a prima vista, ancora più documentaristico, in quanto basato su un collage di grandi film noir del passato, scelti tra il 1912 e il 1959, per un totale di oltre 300 film prodotti tra Usa ed Europa, che inchiodano lo spettatore, per circa un’ora e mezza, dinnanzi a scene mozzafiato, ricche di suspense e di un fascino antico evocato dalla fotografia in bianco e nero che caratterizza questo genere (anche se non manca qualche incursione del colore). Il noir nacque negli Usa ad opera di autori di origine soprattutto mitteleuropea fuggiti negli States da Hitler, affermandosi negli anni ‘40 e ‘50 come una delle più grandi correnti cinematografiche di ogni tempo. Sarà la critica francese a coniare la definizione “noir”, prendendo a prestito il termine utilizzato, sempre in Francia, per indicare i romanzi hard boiled americani (i cui maggiori esponenti furono Dashiell Hammett, Raymond Chandler, Mickey Spillane), ispiratori principi di questi film. Saranno i “giovani turchi” dei Cahiers du cinema, Godard e Truffaut in testa, divenuti, in seguito, i padri della Nouvelle Vague, ad eleggerlo tra le loro grandi fonti ispiratrici.
Bene, tutto questo non viene detto nel film, che non ha una voce over che racconti quanto sopra scritto. Le soli voci che si ascoltano sono quelle, peraltro in lingua originale, degli interpreti dei film che scorrono sullo schermo. L’operazione di Boccassini è chiara. Egli ribalta il concetto di documentario, raccontando il genere noir direttamente, attraverso i film, facendo così vedere allo spettatore ciò che queste opere hanno prodotto nell’immaginario collettivo dell’epoca, e rinnovandone l’interesse nello spettatore di oggi. In che modo? Facendo diventare gli oltre 300 spezzoni di diversi film un unico film, un nuovo film, capace di esplicitare temi e forme di un movimento artistico che dietro “l’apparenza” dell’avventura e dell’intrattenimento popolare, veicolato dai modi alti dell’arte cinematografica espressionista, racconta disagi esistenziali, crudeltà del destino, dicotomie freudiane ed ingiustizie sociali foriere di infelicità individuali. La grande capacità di Boccassini di concentrare tutti questi temi, attraverso un rincorrersi anche aritmico delle immagini di film più o meno famosi, rende lo spettatore protagonista di un disvelamento progressivo di verità assolute nascoste dietro sequenze che attendono solo di essere lette dentro una logica stringente capace di regalarci una lucida visione dell’umano di ogni tempo e di ogni luogo. Il film “creato” da Boccassini utilizza le mille sfumature thriller e horror, virate nelle tante forme cinematografiche, dal western al melodramma fino alla science-fiction, per aprire nuovi orizzonti visivi all’occhio contemporaneo, ormai anestetizzato dalle mille immagini televisive quotidiane, che, per dirla con Wim Wenders, hanno cancellato definitivamente la nostra capacità di stupirci. Anche per questo, non si può non legare il film di Boccassini alle ultime opere sperimentali di Jean-Luc Godard, in quell’estremo tentativo di salvare, attraverso il cinema, ciò che resta del nostro vissuto oramai irrimediabilmente fuori campo.