A un secolo dalla Marcia su Roma, è doveroso occuparsi di merito. Perché il merito esiste ed è un concetto bellissimo, a patto che non venga considerato in astratto, come valore a se stante, scisso da altri principî essenziali del nostro stare insieme. Esistono, infatti, due concezioni antitetiche del merito: quella fascista e quella democratica. Non intendiamo qui occuparci delle polemiche contingenti: vogliamo compiere piuttosto un breve excursus storico. Anche il fascismo, un secolo fa, si presentò come formula palingenetica, volta al cambiamento radicale della società e alla sua trasformazione in un qualcosa di diverso e altro. Non intendevano, le camicie nere e i loro condottieri, accompagnare i mutamenti sociali che si stavano verificando alla luce delle vicende dell’Ottobre russo e del progresso tecnologico che era sotto gli occhi di tutti. Intendevano, piuttosto, imporre dall’alto un nuovo modello di vita, uno stile rivoluzionario e differente in tutto e per tutto rispetto al passato, con l’accantonamento del vecchio e l’esaltazione del nuovo, servendosi a piene mani della retorica propria del dinamismo e del velocismo futurista e attingendo, per avere un ancoraggio ideale, al mito della Roma imperiale e dei suoi fasti. Mussolini si presentò come l’interprete del desiderio collettivo di riscatto, il punto di riferimento delle masse, l’uomo della provvidenza in grado di riportare l’Italia dove doveva stare, di spalancare nuovi orizzonti, di farle conquistare il famoso “posto al sole” nel contesto coloniale delle potenze europee dominanti in Africa. Per far questo, partì proprio dalla scuola, dalla riforma Gentile e dal caposaldo del suo regime: l’esclusione. Il fascismo non è mai stato dalla parte degli ultimi e dei deboli, sfatiamo questo luogo comune: ne ha comprato il consenso con un bicchiere di latte e un po’ d’olio di fegato di merluzzo per combattere il rachitismo, li ha soggiogati con la violenza e col terrore, non ha esitato a sbatterli in aperta campagna, senza alcun servizio, quando ha dovuto edificare le strade dell’Impero e non è un caso che la Resistenza, a Roma e non solo, sia stata una lotta di popolo, con le periferie più degradate e maltrattate protagoniste di un sogno di riscossa collettiva dopo il buio della dittatura. Non è un caso neanche che il vento della Liberazione abbia soffiato con maggior forza al Quadraro, al Pigneto, nelle aree degradate, fra gli operai e i contadini, nel quartiere popolare di San Lorenzo, ovunque ci fosse un’ingiustizia che il fascismo aveva ampliato e sedato con la violenza. No, il fascismo non è mai stato dalla parte dei più fragili. E la scuola fascista non era selettiva: era disumana. Si basava, difatti, sull’idea che i più forti andassero avanti a scapito del resto della popolazione, classe dirigente con i galloni, mentre i deboli venivano lasciati per strada, costretti a vivere nell’ignoranza e nell’arretratezza, in alcuni casi umiliati con metodi terribili. Lo denunciava Gramsci già nel ’21: “…l’Italia è il paese dove le madri educano i figlioletti a colpi di zoccolo sulla testa, è il paese dove in alcune regioni sembrava naturale, fino a qualche anno fa, mettere la museruola ai vendemmiatori perché non mangiassero l’uva; dove in alcune regioni, i proprietari chiudevano a chiave nelle stalle i loro dipendenti al ritorno dal lavoro, per impedire le riunioni e la frequentazione delle scuole serali…”.
Personalmente, so per ragioni familiari quanto la scuola possa fare la differenza nella vita delle persone, soprattutto se si rivolge agli ultimi, agli analfabeti, a chi ha condotto esistenze misere e piene di sacrifici, senza mai una luce di speranza, senza la possibilità di viaggiare, senza nemmeno poter rispondere alle lettere dei propri figli spedite dal fronte. Conosco l’operato dei miei bisnonni, che contribuirono ad alfabetizzatare il piccolo comune di Falvaterra, nel frusinate, e quanto la popolazione locale, spesso povera e con un livello culturale molto basso, li stimasse e avesse nei loro confronti gratitudine e riconoscenza. Ho toccato con mano, dunque, quanto sia vero ciò che affermava Piero Calamandrei, quando sosteneva che “trasformare i sudditi in cittadini è miracolo che solo la scuola può compiere”, specificando anche che “non si ha vera democrazia là dove l’accesso all’istruzione non è garantito in misura pari a tutti”.
Ebbene, alla luce di ciò che abbiamo detto, possiamo asserire che il merito è senz’altro un valore costituzionale, da difendere e tutelare con scrupolo, a patto che sia coniugato con l’idea nobile, propria dei padri costituenti, di portare avanti coloro che sono nati indietro, non di cristallizzare disuguaglianze e ingiustizie. Non è merito lasciare indietro chi è nato in una famiglia povera e, per forza di cose, spesso, incontra maggiori difficoltà nello studio. Non è merito mettere una scuola contro l’altra, in nome di una competizione sfrenata e selvaggia che finisce col premiare i più forti e con l’umiliare i più deboli. Non è merito mettere studenti e insegnanti in competizione fra di loro. Non è merito ignorare la piaga della dispersione scolastica, che talvolta, specie nel Sud, significa consegnare i ragazzi e le ragazze più in difficoltà al malaffare. E non è merito continuare a ironizzare sui buoni voti che molti ragazzi e ragazze riescono a ottenere nel Mezzogiorno, alludendo a chissà quali magheggi: oltre che indegno, è anche un modo per ignorare la coscienza civica di persone che si rendono conto che la scuola, lo studio e l’impegno sono le uniche possibilità che hanno per riuscire nella vita. Il merito, dunque, non può andare di pari passo con la discriminazione e con l’esclusione, con il guardare il prossimo dall’alto in basso, con il non avere rispetto per chi è cresciuto in un contesto difficile e ha bisogno di più tempo per recuperare. Non può essere inteso come misura di tutte le cose, perché questo è l’opposto della scuola di Barbiana, dove un povero prete, don Milani, si faceva carico degli scarti della società, coltivando il sogno concreto di renderli cittadine e cittadini consapevoli.
Tre anniversari rendono ancor più significative queste nostre parole. I venticinque anni dalla scomparsa di don Luigi Di Liegro, fondatore della Caritas diocesana di Roma, un magnifico sacerdote di strada, scomparso a soli sessantotto anni dopo aver dedicato l’intera vita agli emarginati. I cinquant’anni dall’assassinio di Giovanni Spampinato, giovane e coraggioso cronista di Ragusa che denunciava le trame eversive, i traffici e la sporcizia morale dell’eversione nera e stragista che trovava rifugio nella sua terra. I cinquant’anni dalla grande manifestazione sindacale a Reggio Calabria, contro il “Boia chi molla!” di Ciccio Franco e lo strapotere dei fascisti in un’altra terra arretrata e pervasa da mille problemi. L’umanità, l’informazione, la battaglia politica in terra di frontiera: tre esempi di merito dal basso, di ribellione alla barbarie, di ripudio di ogni oppressione, di amore per la giustizia e per l’integrità.
Tornando al fascismo e alla sua concezione criminale del merito, ci vengono in mente le parole che Mario Borsa, direttore del “Corriere d’Informazione” (così si chiamava allora il “Corriere della Sera”) scrisse riportando in edicola il giornale il 22 maggio del ’45. L’editoriale si intitolava “Sincerità” e alcuni passaggi sono davvero straordinari: “Riprendendo la penna dopo venti anni di forzato silenzio, vorrei, anzitutto, consigliare i lettori a fare un atto di sincerità. Mussolini non è più. E sta bene. Ma noi siamo ancora qui. L’uomo ha avuto ciò che si meritava. E sta bene. Ma siamo sicuri di aver avuto noi ciò che ci meritavamo? Mussolini ha finito la sua vita. E sta bene. Mussolini ha chiuso gli occhi per sempre. E sta bene. Ma saremo noi tanto avveduti da tenerli d’ora in avanti bene aperti?”. Ma sono altri due i punti su cui vale davvero la pena riflettere. Nel primo si scaglia contro le parole chiave del fascismo: parole che il Duce trasse dal “firmamento intellettuale dell’Europa”, parole che “tutti ripetevano perché titillavano la vanità”, parole come “primato”, “conquista”, “gloria”, “impero”. E aggiungeva: ” La colpa vera, umiliante, imperdonabile fu nostra. […] Se vogliamo in qualche modo fare uno sforzo per risollevarci, dobbiamo, anzitutto, avere il coraggio di confessarci, di gridar forte come il Nikita tolstoiano: “Siamo stati noi! Siamo stati noi!…”. È stata la nostra borghesia che, presa nel 1919 da panico pecuniario per i disordini del dopoguerra, né gravi in sé né irrefrenabili (ove appena l’autorità fosse stata fermamente sostenuta), credette di vedere la propria salvezza sociale nel manganello degli squadristi, ai quali fu larga di incoraggiamenti e prodiga di denaro e di armi; è stato lo smarrimento degli uomini e dei partiti responsabili, ai quali vennero a mancare l’energia e la fede”.
Negli ultimi anni, c’è stato anche chi ha pagato un prezzo altissimo, personale e politico, per aver creduto sul serio nell’istruzione come ascensore sociale, per aver provato a dar voce e spazio a coloro che nella scuola hanno l’unica speranza di andare avanti nella vita. È, ribadiamo, l’idea di merito della Costituzione, quella di Calamandrei, quella in cui ci si prende per mano e non si lascia indietro nessuno, quella in cui non si indulge alla malvagità, non ci si rammarica per le poche bocciature ma si pone lo studente e la studentessa al centro, coscienti del fatto che quando qualcuno si perde è una sconfitta per la collettività nel suo insieme.
In questi giorni, l’università La Sapienza di Roma vede la facoltà di Scienze Politiche occupata in seguito alle manganellate inferte dalle forze dell’ordine a ragazze e ragazzi che volevano solo manifestare, pacificamente, il proprio dissenso nei confronti di un discutibile convegno. Al coraggio e alla passione civile di quei ragazzi e di quelle ragazze, al loro costante impegno per una società più giusta e alla loro idea di una società in cui la cultura prevale sulla violenza va il nostro pensiero. Quanto a me, ripenso spesso alle parole della PM Patrizia Petruzziello, un’eroina civile che si occupò dell’inferno di Bolzaneto, quando afferma l’importanza di far prevalere sempre la forza del diritto sul diritto della forza. Ecco, questa nuova generazione è figlia di quelle battaglie, con le loro poche vittorie e le loro tante, amarissime sconfitte. Eppure, a cento anni dalla Marcia su Roma, nonostante il clima fetido che si respira, ci credono e si battono ancora, chiedendo “Un’altra università. Per questo, per altro, per tutto”.
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