“Io non volevo che Elf se ne andasse. Chiunque nel mondo lottava per trattenere qualcuno. Quando Richard Bach scrisse ‘se ami qualcuno, lascialo libero’, probabilmente non si rivolgeva agli esseri umani”.
“I miei piccoli dispiaceri”, romanzo di Miriam Toews, riedito in italiano da Einaudi (288pp, 12,80Euro) con la straordinaria traduzione di Maurizia Balmelli, è la storia di due sorelle, Elfrieda e Yolandi, una storia luminosa in cui dolore e amore sono intrecciati a doppio filo.
La prima è una grande pianista, un’intellettuale raffinata che, incurante delle critiche della comunità mennonita di Winnipeg, piccolo centro del Canada, ha scelto di seguire la sua passione, la musica, andando in Europa e raggiungendo il successo. Eppure Elf – come la chiama sua sorella – è intenzionata a porre fine alla sua vita, tale è il dolore che la sua esistenza comporta, nonostante la musica, nonostante l’amore del compagno Nic, di sua sorella, di sua madre, dei nipoti Will e Nora… Yolandi è invece da sempre ‘la Svitata’, molto più irregolare nel proprio percorso, ma incredibilmente innamorata dell’esistenza: una vita a Toronto, due figli con due uomini differenti, separata da entrambi, un lavoro in equilibrio precario come scrittrice, in fondo sempre al verde.
La disordinata quotidianità di Yolandi viene interrotta quando Elf cerca di togliersi la vita e lei non può fare altro che correre al suo capezzale. La morte è una presenza immanente in quella famiglia: il padre si era tolto la vita anni prima, buttandosi sotto un treno.
“Ti è mai venuto in mente che anche io ho avuto un padre suicida, che anche io faccio fatica a superarlo, che anche io sto cercando di dare un senso alla mia stupida, patetica vita, che anche io spesso penso che è tutta una ridicola farsa e che l’unica risposta intelligente sia il suicidio, ma poi mi dissocio da questa conclusione perché genera un peso piuttosto sgradevole?”
Elf è ancora ricoverata in un reparto psichiatrico quando, lucidamente convinta di voler mettere fine alla propria esistenza, chiede a Yolandi di essere aiutata, di essere accompagnata a Zurigo in una clinica della ‘buona morte’ ovvero in Messico dove è più facile procurarsi farmaci letali. E’ così che tutta la seconda parte del romanzo si snoda tra i ricordi dell’adolescenza e i dubbi di Yolandi, incerta se assecondare la richiesta di sua sorella o cercare ad ogni costo di tenerla in vita.
Sullo sfondo della narrazione troviamo una serie di personaggi secondari: cugine, amanti occasionali, l’amica Julie, ma anche tante riflessioni sulla vita, sull’amore, sui rapporti famigliari. Disarmante la straordinaria forza della madre nel sostenere da sola il peso di una vita difficile, contrassegnata da momenti di disperazione. Neanche l’arrivo da Vancouver della sorella Tina riuscirà ad allegerirne il fardello, a causa della sua morte improvvisa per una complicanza cardiaca… Tra morti e dolore, vino rosso e camere ardenti e il richiamo ai tanti autori cari ad Elf, da Pessoa, a Virginia Wolf a Kerouac a Hemingway e soprattutto all’Amante di Lady Chatterly, e le tante lettere che Yolandi continuerà a scrivere alla sorella anche dopo la sua morte, la narrazione di Miriam Toews – che ha vissuto sulla propria pelle l’adolescenza in una comunità mennonita così come il suicidio di suo padre e di sua sorella – è un viaggio filosofico tra vita e morte, felicità e pessimismo, passioni e disperazione. Un tributo d’amore a sua sorella e alla sua granitica madre. Quello della Toews è, però, soprattutto un romanzo straordinario e travolgente, pieno di disperazione e di ironia, un fiume in piena, un crescendo impetuoso di emozioni rispetto alle quali il lettore dovrà lottare non poco per non essere sopraffatto, parola dopo parola, pagina dopo pagina, tra sorrisi e commozione.