Una risposta culturale al cambiamento climatico
Nella rubrica “Dalla parte di lei” di questo mese di ottobre, Chiara Xausa torna a parlarci di ecofemminismo. Lo fa ribadendo l’urgenza di una risposta culturale al cambiamento climatico. Dopo aver ricostruito, nel precedente contributo (vedi agosto 2022) la genealogia di un pensiero femminile/femminista, insistendo sulla gravità della crisi planetaria in atto, che necessita di risposte etiche, culturali, filosofiche, politiche, sociali, ci propone ora un focus sul pensiero e la narrativa delle donne in Italia. Ha scelto di parlarci di tre scrittrici e dei loro romanzi che lei definisce «distopie critiche», perché incrinano il negativo delle «distopie» tradizionali, realizzando una torsione dello sguardo che allontana dal catastrofismo senza scampo, per suggerire pratiche positive capaci di imprimere una inversione di rotta rispetto al piano inclinato in cui stiamo precipitando.
Il romanzo Sirene di Laura Pugno, pubblicato da Einaudi nel 2007 e riproposto da Marsilio nel 2017, conduce la lettrice in un universo distopico dove «tutto sta tornando selvaggio» e la specie umana, avendo perduto le consuete coordinate spazio-temporali, è sul punto di soccombere. In un mondo devastato da una terribile epidemia, fanno la loro comparsa le Sirene, creature letterarie che provocano suggestioni visionarie e perturbanti insieme.
Chiara Mezzalama, con il suo romanzo Dopo la pioggia (E/O 2021), affronta il nodo del rapporto inscindibile e misterioso tra natura e umanità. I personaggi del romanzo esprimono smarrimento di fronte ad eventi estremi, ma nel contempo si fanno portatori di resilienza, speranza, e ricerca di forme di vita alternative e solidali che si ispirano all’ecosistema delle foreste, dei funghi, della natura, recuperando suggestioni dai libri di Haraway ma anche dal libro di Masanobu Fukuoka, La rivoluzione del filo di Paglia, sull’agricoltura naturale, già noto in Italia fin dagli anni ’70.
Maria Rosa Cutrufelli, dopo averci regalato il romanzo La donna che visse per un sogno, dedicato a Olympe de Gouges, e il più recente Il giudice delle donne (2016), sempre sulle tracce dell’impronta femminile nella Storia, rilancia con L’isola delle madri la scommessa con la vita.
Per guidarci in questa appassionante lettura, consapevoli della necessità di un cambiamento, facciamo nostro l’esergo del libro di Donna Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto (2019): «Ci troviamo a vivere sulla Terra in tempi confusi, torbidi e inquieti. L’obiettivo è diventare capaci di articolare una risposta accanto a chi, della nostra specie, è troppo sicuro di sé e del mondo».
AC
Il termine ecofemminismo è stato introdotto per la prima volta in uno scritto di Françoise d’Eaubonne del 1974, Le féminisme ou la mort: denunciando i costi ambientali dello sviluppo, la femminista radicale francese invitava le donne a farsi soggetti del mutamento e a guidare una rivoluzione ecologica, in virtù dell’esperienza di oppressione che il genere femminile condivide con la natura. Al di là delle sue diverse declinazioni, il pensiero ecofemminista sostiene l’esistenza di un parallelismo strutturale tra il dominio patriarcale delle donne e la subordinazione della natura.
“Donne e natura sono unite da un’associazione millenaria, un’affiliazione che è persistita nell’intero corso della cultura, della lingua e della storia”, scrive nel 1980 la filosofa della scienza ed ecofemminista Carolyn Merchant nell’Introduzione a The Death of Nature. Merchant ripercorre le origini della scienza moderna dal momento in cui la natura inizia a essere concettualizzata come femmina – come Madre Natura o come Terra Vergine, come femmina benevola che nutre, ma anche soggetto passivo da violentare – e come macchina che l’uomo deve dominare. La “morte” di cui parla il titolo è dunque la fine di una natura intesa come organismo vivente e l’inizio dello sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali in nome del progresso. Allo stesso modo, per gran parte della storia della cultura occidentale, le donne sono state identificate da vicino con l’idea di natura e considerate quindi prive di soggettività, agency autonoma e razionalità. L’ecofemminismo ci aiuta a comprendere che per costruire una società sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale, basata su valori che riconoscano la nostra interdipendenza dalla natura, si rende necessario non tanto denaturalizzare la donna, ma rinaturalizzare l’umanità, ripensando il rapporto con l’altro/a non umano/a in termini di interconnessione e interdipendenza.
Questo articolo intende proporre una lettura ecofemminista di alcuni romanzi italiani di recente pubblicazione che raccontano che cosa avviene quando il rapporto tra essere umano e natura viene spinto al limite: Sirene di Laura Pugno (2007), L’isola delle madri di Maria Rosa Cutrufelli (2020), e Dopo la pioggia di Chiara Mezzalama (2021). Ispirandomi al lavoro di Raffaella Baccolini e Tom Moylan (2003), definisco i tre romanzi come distopie critiche: distopie che incrinano il negativo della distopia classica, e, lasciando intravedere la speranza di un cambiamento, diventano strumento di critica del presente. Nessuno dei tre romanzi propone un lieto fine confortante: l’interdipendenza (tra esseri umani, ma anche tra essere umano e natura) narrata dalle autrici non è mai priva di tensioni e contraddizioni. Ispirandomi nuovamente al lavoro di Baccolini (2022), tuttavia, sostengo che è proprio per la sua capacità di turbare e disturbare lettori e lettrici che la distopia critica può aiutarci a elaborare risposte radicali alla crisi del presente.
Dalla femminilizzazione della natura al ripensamento delle parentele: Sirene, L’Isola delle madri, e Dopo la pioggia
La femminilizzazione della natura e la naturalizzazione del corpo femminile sono al centro di Sirene, pubblicato da Laura Pugno per Einaudi nel 2007 (poi Marsilio, 2017). Il romanzo è ambientato in un futuro imprecisato, dove a causa di un cancro nero che si sviluppa a contatto con la luce solare gli esseri umani si sono ritirati a vivere in dei rifugi costruiti sotto l’oceano. In uno di questi vengono allevate le sirene, che una volta raggiunta la maturità sono destinate ai bordelli per la soddisfazione dei desideri sessuali o ai ristoranti per l’appagamento di quelli gastronomici. Gli esemplari più belli della specie, quelli che assomigliano di più alle donne umane, vengono inviati ai bordelli, mentre le altre sono mangiate come sushi:
Le femmine erano bestie da latte e da carne e insieme erano donne, prive di parola, prive di gambe, il muscolo unico della coda capace di spezzare in due la schiena di un uomo, la vagina liscia […]. Ti guardavano con occhi vuoti, spenti, verde mare o oltremare, con le membrane nittitanti delle palpebre come pezzi di plastica sporca, i visi poco più che musi — di vacca […] ma a complicare il loro corpo c’erano quei capelli lunghi, se poi si potevano dire capelli, un’unica massa elastica verdeazzurro o azzurro vivo che scendeva sulla schiena, che ondeggiava nell’acqua […] e le braccia verde chiaro con le mani palmate, il seno sempre grande e pesante con i capezzoli verde cupo, durissimi, da cui nell’estro usciva un latte dolciastro (11-12; il corsivo e mio).
L’animalità delle sirene emerge chiaramente da questo breve passaggio; allo stesso tempo, tuttavia, caratteristiche fisiche come i lunghi capelli e il seno determinano una somiglianza con il corpo femminile, complicando il rapporto di dominio che gli uomini intraprendono con loro. Sirene sembra dialogare da vicino con un testo chiave dell’ecofemminismo statunitense e dell’antispecismo militante, La politica sessuale della carne di Carol J. Adams (1990; ultima edizione del 2020). La politica sessuale della carne è un’attitudine che animalizza i corpi femminili e sessualizza gli animali. Secondo l’autrice, sia le donne che gli animali non umani nelle società occidentali sono posizionati in una scala gerarchica inferiore rispetto all’uomo, rappresentati come oggetti invece che soggetti. Adams traccia una connessione tra patriarcato e consumo di carne, mostrando come quest’ultimo sia stato storicamente una prerogativa maschile e delle classi sociali abbienti. Un altro tema sollevato dall’autrice è quello delle “proteine femminilizzate”, come il latte vaccino prodotto da mucche inseminate artificialmente e costrette a gravidanze forzate. Il tema delle proteine femminilizzate emerge anche in Sirene:
La riproduzione delle sirene negli allevamenti, come del resto la crescita e l’accesso alla pubertà, era accelerata con estrogeni e un’alimentazione particolarmente ricca di grassi – il condizionamento ormonale – innaturale per la specie che si nutriva di alghe e di plancton. L’accelerazione, rispetto ai ritmi naturali, era vertiginosa. […] In natura la specie era quasi estinta. Sotto condizionamento ormonale la gravidanza durava trenta giorni. Nel giro di sei mesi, le sirene erano sessualmente mature, venivano fatte riprodurre e avviate al macello (32).
Leggo dunque Sirene come una critica alla riproduzione forzata dei corpi non umani, ma soprattutto come un invito a ripensare il parallelismo tra il dominio patriarcale delle donne e la subordinazione della natura. I temi della riproduzione e dello sfruttamento donne-natura ritornano a “turbarci” e “disturbarci” anche in uno degli ultimi romanzi di Maria Rosa Cutrufelli, L’Isola delle madri, pubblicato per Mondadori nel 2020. Il testo di Cutrufelli ci trasporta in un futuro non troppo lontano in cui il cambiamento climatico e l’infertilità umana hanno portato la società sull’orlo del collasso. Le vicende si svolgono in quattro luoghi diversi, accomunati da un’analoga devastazione ambientale: un’isola del Mediterraneo che ricorda da vicino la Sicilia, dove si trova la Casa della Maternità; la penisola italiana; l’Europa orientale; l’Africa sudoccidentale. I diversi luoghi sono alle prese con una devastante siccità, e le dimensioni planetarie della crisi ecologica sono evidenti nella minaccia del razionamento dell’acqua e nell’aumento delle temperature globali, con il mese di novembre ormai caratterizzato da un caldo sole estivo. Questi cambiamenti hanno origine nello sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, nell’uso di fertilizzanti e pesticidi sintetici, e nelle nubi tossiche generate dall’industria chimica. La terra non nutre più l’essere umano ma serve per riempire le auto, e il mais viene trasformato in olio combustibile anziché in farina; la terra ci viene inoltre presentata come dotata di una lunga “memoria,” ed è per questo che si rivolta contro l’umanità per averle inquinato il suolo, l’acqua e l’aria. L’alternanza di siccità e allagamenti, che tornerà anche in Dopo la pioggia di Mezzalama, ha portato a uno stato di precarietà e incertezza totale rispetto al futuro: la vita è diventata precaria “da diritto a rovescio. In ogni sua piega quotidiana” (11), “lo straordinario ha preso il posto dell’ordinario in maniera definitiva, e tutto ciò che doveva essere provvisorio ha mutato natura, raggiungendo una specie di variabile perennità” (14).
L’effetto collaterale più tragico del cambiamento climatico è però la “malattia del vuoto” (sterilità): poiché la maggior parte delle donne e degli uomini è diventata sterile, per procreare è necessario ricorrere alle biotecnologie. La prefazione di Cutrufelli illustra alcune importanti influenze per L’Isola delle madri: il lavoro come chimico del padre, le cui analisi sulla qualità del fiume Reno l’avevano resa consapevole degli effetti dell’inquinamento sulle piante, sugli animali e sulla salute delle persone, e Primavera silenziosa di Rachel Carson (1962), il primo importante monito di risonanza internazionale sui pericoli dei pesticidi sintetici come il DDT e sulla loro intrusione nelle catene alimentari. Cutrufelli si ispira inoltre ai rapporti delle Nazioni Unite sul calo dei tassi di fertilità per immaginare uno scenario in cui la Terra si trovi ad affrontare una sottopopolazione anziché una terribile sovrappopolazione.
Come ne Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood (1985), la manomissione della natura è legata al dominio patriarcale sulle donne e l’infertilità diventa una delle conseguenze dell’avvelenamento del mondo, con la salute delle madri e dei neonati minacciata dai contaminanti presenti nella catena alimentare. Il romanzo esprime inoltre una stretta correlazione tra crisi climatica e diritti riproduttivi: prima di essere finalmente inclusa in un elenco di epidemie mondiali, l’infertilità è stata per lungo tempo trattata come un problema personale che le donne dovevano cercare di curare da sole, abbandonate a loro stesse o accusate di esagerare la malattia. L’indifferenza per alcune malattie che colpiscono la parte femminile della popolazione viene dunque correlata al negazionismo climatico. L’unica cura per la “malattia del vuoto” sembra essere l’applicazione diffusa di biotecnologie, come quelle a cui ricorre il centro di riproduzione assistita dove lavora una delle protagoniste, la BioCompany. Concepita come una clinica per aiutare le coppie, la BioCompany è tuttavia caratterizzata da una struttura gerarchica militarista e dall’utilizzo di misure coercitive che costituiscono l’ennesima erosione dei diritti delle donne.
Sopravvivere su un pianeta infetto, però, è ancora possibile: le quattro protagoniste del romanzo, Kateryna, Mariana, Livia e Sara, si propongono di resistere all’etica dello sfruttamento attraverso una rielaborazione femminista del concetto di cura basata sulla collaborazione. Quando tutte e quattro si incontrano sull’Isola della Maternità, Kateryna si offre di portare in grembo un bambino per Livia, che però muore in un incidente aereo poco dopo; la figlia neonata viene cresciuta da Mariana e poi adottata da Sara. Questa “repubblica delle madri” o “maternità frantumata” (157) è una delle possibili risposte all’erosione dei diritti delle donne da parte della BioCompany, e ha un’esplicita matrice ecofemminista che si ispira al culto delle antiche dee. L’Isola delle madri contiene infatti diversi riferimenti alle “Grandi Madri Primordiali” delle antiche religioni mediterranee, studiate a fondo da Livia durante la sua carriera accademica. La stessa Isola delle Madri era un tempo conosciuta come l’isola di Demetra, la dea greca dell’agricoltura e della fertilità. Il romanzo non propone una riconciliazione semplicistica tra gli esseri umani e la natura, né una celebrazione della maternità: all’incertezza e alla precarietà che caratterizzano il mondo contemporaneo si può però provare a rispondere attraverso una pratica femminista della cura che rifiuta le logiche di mercato e si allarga alle relazioni ecologiche, proponendo un maggiore radicamento nel mondo.
Anche Dopo la Pioggia di Chiara Mezzalama, pubblicato per edizioni e/o nel 2021, si interroga e ci interroga sul rapporto profondo tra natura e umanità. La “morte” della natura, per citare ancora Merchant, è all’origine di un contesto climatico stravolto in cui tutto è sul punto di crollare: il mondo esterno e in mondo interiore dei due protagonisti, Elena ed Ettore, alle prese con la fine del loro matrimonio. La Roma raccontata da Mezzalama ci parla da vicino, con le terre nelle vicinanze del Tevere arse e dure per via di un’anomala siccità e degli incendi che hanno devastato la regione durante l’estate: “l’erba era secca e ingiallita, la terra assetata da troppi mesi per riuscire a rigenerarsi, e il caldo troppo intenso per quell’inizio di autunno” (35). L’acqua, quando arriva, lo fa in forma violenta, portando il Tevere a esondare in poche ore. L’origine antropogenica del disastro ambientale è resa esplicita dalle diverse voci che abitano il romanzo: sentirsi “padroni del mondo, proprietari della natura” è una “forma di arroganza che conduce alla cecità” (118). I segni del cambiamento, sostiene Ettore, erano inoltre osservabili da lungo tempo, nonostante la diffusa tendenza a trattare alluvioni ed esondazioni come “fenomeni assolutamente straordinari e imprevedibili” (63). Di fronte all’enorme distruzione naturale e psicologica sembra non esserci spazio per risposte diverse dal catastrofismo climatico, che Elena ed Ettore ritrovano nell’informazione apocalittica dei mass media, nel movimento dei collassologi – gli studiosi della teoria del collasso -, e nei film distopici che vanno tanto di moda. Occorre in primo luogo comprendere che il cammino per affrontare l’incertezza, la fragilità, e l’imprevedibilità degli scenari futuri inizia con un cambio di prospettiva e di linguaggio: nel romanzo questa trasformazione viene guidata da un’antropologa femminista che “parla di funghi e delle rovine del capitalismo” (16), Anna Tsing, che Elena sta traducendo per lavoro. Il suo saggio, Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo (la cui edizione originale, in inglese, è del 2015) inizia così: “Cosa fare quando il vostro mondo comincia a crollare? Io vado a passeggio e, se sono veramente fortunata, trovo dei funghi” (18). Tsing si riferisce in particolare al fungo matsutake, che cresce per lo più in Giappone ed è caratterizzato dalla capacità di spuntare in foreste perturbate dall’essere umano per lo sfruttamento industriale intensivo (ma non solo: il matsutake è stata la prima forma di vita a crescere tra le macerie di Hiroshima dopo la catastrofe). Seguire le tracce dei matsutake, scrive Tsing, può aiutarci a immaginare possibilità di coesistenza all’interno di perturbazioni ambientali, riconoscendo che c’è vita in queste macerie. Attraverso la traduzione di Elena, Tsing insegna inoltre che:
l’indeterminatezza, o l’imprevedibile natura del tempo, ha qualcosa di spaventoso, ma pensare con la precarietà fa sì che l’indeterminatezza renda anche la vita possibile. La sola ragione per la quale tutto questo appare strano è perché siamo cresciuti, la maggior parte di noi, con dei sogni di modernizzazione e di progresso (24).
Abitare la natura imprevedibile del tempo richiede uno sforzo collaborativo non solo tra esseri umani, ma anche tra umano e natura: diventa sempre più urgente ricomporre la frattura tra umano e non-umano, causata dallo sfruttamento indiscriminato delle risorse e da una visione della natura come “forsennata, arrabbiata, vendicativa” (90). Ed ecco quindi che Elena attraversa i confini tra il suo corpo e le piante assetate che popolano il mondo esterno, con le quali si sente in sintonia: anche lei, come loro, “doveva scavare sempre più a fondo per trovare le risorse per sopravvivere” (39). Ecco che Ettore, di fronte a un Tevere gonfio e minaccioso, pensa per la prima volta alla natura come a “qualcosa dotato di una volontà propria” (64), a una protagonista attiva più che a uno sfondo per l’azione umana. Entrambi, nelle ultime pagine del romanzo, trovano riparo presso una comunità di suore di diversa nazionalità (una confraternita ecologista, femminista e vegana, nelle parole di Ettore) che abitano le rovine del pianeta sperimentando pratiche di permacultura.
La cura reciproca e la creazione di nuovi tipi di parentele oltre i limiti dell’umano diventano modalità inedite di affrontare la crisi senza abbandonarsi al catastrofismo: serve una certa dose di inventiva per continuare a sopravvivere su un pianeta rovinato. Certo, esistono giorni in cui le notizie che arrivano da ogni parte del pianeta sono terrificanti e il pensiero della fine diventa insopportabile. È in giorni come questi, ci dicono Elena e con lei Anna Tsing, che andare a passeggio nella foresta alla ricerca dei funghi può restituirci “un barlume di significato, il sentimento di appartenere a qualcosa di più vasto che rappresenta l’equilibrio perfetto tra ciò che si crea e ciò che si distrugge e che noi umani abbiamo rotto per sempre” (212).