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Virginio Rognoni, ministro in anni impossibili 

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Di Virginio Rognoni, scomparso pochi giorni fa all’età di novantotto anni, conservo un ricordo personale molto significativo. Avevo quindici anni e, nel pieno della campagna elettorale, partecipai a un convegno dei DS dedicato al futuro dell’informazione e vennero lette alcune mie riflessioni. Rognoni si fece dare l’articolo e volle leggerlo per intero. Può sembrare una piccola cosa ma non lo è. Perché questo democristiano della Sinistra di Base, pacato e mite come tutti i rappresentanti di quell’area, era un uomo antico e, al tempo stesso, modernissimo, sempre attento a ciò che si muoveva nel cuore della società e, in particolare, fra le nuove generazioni. Non gli interessava la mia persona, che ovviamente non conosceva, ma la mia visione del mondo, come vedesse il servizio pubblico un figlio del Duemila e cosa stesse cambiando all’interno del Paese. In questa curiosità era racchiusa la grandezza di quella generazione, la sua capacità di stare al passo coi tempi nonostante i repentini mutamenti che hanno scandito l’ultimo mezzo secolo e le ritualità democristiane che certo non si caratterizzavano per rapidità e progressismo. Eppure, i basisti avevano una loro peculiarità, riuscendo spesso ad anticipare i tempi e a mostrare una lungimiranza di cui la stessa sinistra, talvolta, era sprovvista. Questo era senz’altro il caso di Rognoni, divenuto ministro degli Interni in seguito all’omicidio di Moro, sulle macerie lasciate da Cossiga, dunque in una delle fasi più difficili della nostra storia recente. I suoi cinque anni al Viminale, per quanto funestati dal caso Dozier e dai sospetti delle torture inferte ai brigatisti che gravarono sulla vicenda (basti pensare all’intervista rilasciata, nel 2012, a Pier Vittorio Buffa dell’Espresso dall’ex dirigente di Polizia Salvatore Genova), furono comunque caratterizzati da importanti novità. Fu per merito suo e di Pio La Torre, infatti, se nacque la legge sull’associazione a delinquere di stampo mafioso.
E fu sempre per merito suo se abbiamo la legge a favore dei pentiti: un modo che, all’epoca, consentì di sconfiggere l’eversione rossa e nera, cercando di evitare ulteriori spargimenti di sangue in un Paese già straziato da un decennio segnato da stragi e lutti d’ogni genere. Fu merito suo, infine, anche se lo Stato rimase in piedi di fronte ad attacchi mostruosi, primo fra tutti la barbarie che sconvolse la stazione di Bologna il 2 agosto dell’80, di chiara matrice fascista, sulla quale non è stata ancora fatta piena luce. Tutto ciò non può indurci, tuttavia, al silenzio sul tema essenziale dei diritti umani. Ci spiace per gli amanti della “ragion di Stato” ma per noi la vita e l’incolumità delle persone viene prima di tutto, anche quando si tratta di criminali o presunti tali. L’idea che in “guerra” tutto sia lecito non ci appartiene e non ci apparterrà mai, neanche quando si tratta di persone che stimiamo, perché ciò compromette la fiducia dei cittadini nei confronti della cosa pubblica e legittima, sia pur involontariamente, comportamenti che non possono appartenere a chi si oppone a ogni forma di delinquenza e di orrore.
Senza fare sconti né tacere alcun dettaglio di una biografia lunga e complessa, è però innegabile che a questo mite cattolico democratico dobbiamo la tenuta della coesione nazionale in alcuni dei momenti peggiori che abbiamo vissuto, al pari di una visione sempre ampia, aperta e con lo sguardo rivolto al futuro. Scelse, come quasi tutti i democristiani di sinistra, di opporsi non tanto a Berlusconi quanto al berlusconismo, contrastando non la persona, cosa che era contraria al suo modo di intendere la vita e l’impegno politico, ma le idee e una visione del mondo agli antipodi rispetto a tutto ciò in cui aveva creduto e continuava a credere. Di Rognoni, al netto del fatto che si fosse d’accordo o meno, non si poteva non apprezzare la coerenza, il suo essere stato sempre dalla stessa parte e il suo aver saputo condurre gli ideali della gioventù nel nuovo secolo, senza mai fermarsi né difendere acriticamente l’esistente. A differenza di tanti, troppi altri protagonisti della politica italiana, ha saputo mettere in discussione anche se stesso, ricordando le sue radici e non arrendendosi mai a una deriva morale che gli appariva insopportabile.
Quasi un secolo di passioni e battaglie: un’esistenza spesa al servizio delle sue convinzioni e delle istituzioni. Una bella vita, intensa fino all’ultimo giorno.

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