Disse un giorno Cathy Berberian: «La musica è l’aria che respiro e il pianeta che abito». Scomparsa nel 1983 a Roma, in quell’Italia in cui aveva trovato la strada della compiutezza artistica, feci in tempo a visitare quel pianeta, ad ascoltare la sua magnifica voce che sembrava fatta apposta per i madrigali e per l’espressionismo atonale e dodecafonico. Era la fine degli anni Settanta e a Villa Cicogna, antica dimora alle porte di Bologna, giunse una sera Cathy con alcuni strumentisti. Appena montò sulla predella fu chiaro che era già la Berberian provata dal tempo e dotata della stazza corporea delle grandi voci: la sua figura contrastava nettamente con l’esilità delle fotografie che la ritraevano da giovane.
Era nata nel Massachusetts nel ’28, ma che discendesse da armeni lo dicevano il naso affilato e quei grandi occhi scuri incastonati in un volto indefinibile, a mezza via tra il bulgaro e l’iranico. Era comunque il profilo d’una donna che sapeva il fatto suo, e la biografia lo testimonia a sufficienza: dopo studi di arte scenica negli Stati Uniti era sbarcata in Europa con una borsa di studio della Fulbright Foundation e, dopo alcuni anni trascorsi sul repertorio classico, era approdata alla sperimentazione di tecniche vocali disparate. La sua eccezionale dote venne a galla: diventò in breve la voce più adatta a interpretare molta musica del secondo Novecento. Per lei appositamente scrissero Milhaud, Stravinskij, Maderna, Bussotti e Berio. Quest’ultimo la portò anche all’altare nel 1950.
Ma la sperimentazione si spinse ben oltre i limiti della sua epoca e Cathy fu interprete indimenticabile di John Lennon e di Monteverdi, di William Walton e di Purcell. Diventò la voce capace di tenere recital interamente femminili, a base di Malibran, Alma Mahler, Clara Schumann e Fanny Mendelssohn; anche la voce che incollò tra loro canti popolari armeni e azerbaigiani, etnie che si sono poi reciprocamente detestate. Cathy era questo: una corda su cui stendere il serialismo e il madrigale, il pop e l’incredibile Stripsody, la composizione per sola voce che lei stessa aveva composto nel 1966: un esperimento estremo in cui anche lo spartito diventava opera d’arte grafica. Fu insomma aria pura, forse di provenienza asiatica, che andò a spirare sull’Occidente delle stagioni concertistiche.
E proprio uno di quei recital eterogenei aveva preparato per il concerto di Villa Cicogna: Monteverdi e Pierrot Lunaire. Fu un crescendo di emozione, fino al culmine di quella voce che in Schönberg deve toccare la nota e non fissarla, secondo quella tecnica dello Sprechgesang che deve calarsi nella forma musicale ma restare linguaggio. Cathy non ebbe bisogno, quella sera, di nessuna biacca di pagliaccio, di nessuna smorfia esasperata per far toccare alla sala il fondo tragico del personaggio che canta alla luna la propria grottesca e allucinata malinconia, per far sentire la pastosità dell’espressionismo tedesco.
Chi meglio della Berberian per interpretare un’opera con cui Schönberg intendeva realizzare la nuova vocalità? Lei la nuova vocalità l’inventò davvero, ne fece l’arte della tessitura cucita sulla corda vocale, dell’onomatopea sonora, dell’emissione libera. Tutto mediante una voce di modesto volume cameristico e di tono squillante e oscuro a un tempo, inesorabilmente mezzo-sopranile. Ma una voce seducente e istrionica, dotata della stessa flessibilità dei cantori popolari dell’Europa dell’est. Un fenomeno insomma, una Mina della musica seria, come Mina è stata una Berberian della musica leggera, e chi ama l’una amerà l’altra. Fu anche un fenomeno isolato, che non fondò alcuna scuola. Per questo Cathy Berberian è grande. Perché è un’isola del Novecento. Donna – e unica a un tempo.