Comunque la si pensi, il voto appena concluso sarà oggetto di studi e di ricerche non solo sugli effetti politici.
Vi sono, infatti, taluni aspetti che hanno segnato rilevanti novità nella comunicazione.
Innanzitutto, è cambiato il ruolo dei sondaggi. Questi ultimi sono diventati via via strumenti di campagna elettorale. La loro eccedenza e la reiterazione delle schermate diffuse in modo palese fino agli ultimi quindici giorni (e sotto mentite spoglie nel periodo proibito) rappresentano ormai un elemento cruciale della formazione del clima di opinione. Quando si afferma che questa volta le rilevazioni hanno indovinato i risultati non si tiene in conto una possibile variabile: sono proprio i sondaggi una concausa dei dati finali. Ciò non significa, ovviamente, vietare. Tuttavia, è doveroso introdurre norme più rigide all’ingresso, con una selezione fatta sulla base della rappresentatività delle indagini.
Inoltre, va sottolineato che la comunicazione è avvenuta sì in modalità mista (radio, televisione e social), ma si è sancita la divisione dei compiti tra vecchio e nuovo. La televisione generalista rimane il luogo privilegiato per il consenso e la visibilità delle leadership, come l’esibizione dei prodotti al supermercato. I social, però, si sono trasformati nella trama che induce i desideri politici, persino quando la persona che naviga è ancora lontana dall’averne consapevolezza. La caccia ai dati riservati, in grado di ricostruire il puzzle delle identità digitali, è assurto a livello privilegiato della guerra fredda che si svolge in rete. Parliamo anche della parte dark, quella enorme sacca non immediatamente visibile di Internet. C’è un mercato nero dei profili che, specie nelle aree incerte e contendibili, è indispensabile per condurre forme di pubblicità mirata.
Ed eccoci al punto chiave. La legge 28 del 2000, la vituperata ma tuttora utilissima par condicio, richiede un serio aggiornamento. Chissà se il prossimo parlamento se ne vorrà occupare, visto che la tutela delle pari opportunità non ha colore e riguarda l’insieme delle forze in campo.
Ne ha parlato il presidente dell’Agcom Giacomo Lasorella in un’intervista rilasciata ad Aldo Fontanarosa, pubblicata da la Repubblica della scorsa domenica 25 settembre.
Peccato, tuttavia, che in base ai poteri previsti dalla legge istitutiva (249/97), l’Autorità avrebbe potuto da sé allargare ai social la disciplina in vigore. Non a caso, lo stesso regolamento applicativo del 3 agosto (delibera 299/22/CONS) ha introdotto un titolo specifico che interviene sulla materia. Il titolo VI si applica alle «Piattaforme per la condivisione di video e social network» e lì si evocano gli articoli 8 (sondaggi politici ed elettorali) e 9 (disciplina della comunicazione istituzionale e obblighi di informazione). Come mai non è stato recepito pure il fondamentale articolo 5, quello inerente ai programmi di informazione? O non si è ribadito il silenzio elettorale? Insomma, se l’Agcom ritiene di avere i poteri non può utilizzarli senza precisi criteri. Se, al contrario, suppone che vi sia un deficit di legittimazione ha l’obbligo di segnalare ufficialmente la questione alle Camere.
Non solo. Si è consumata la crisi dei Comitati regionali per la comunicazione, vale a dire le articolazioni territoriali dell’Agcom. Tali organismi furono immaginati per svolgere compiti importanti. Sono emersi, invece, diversi casi anomali, non certamente commendevoli per i Corecom. In Campania e in Liguria, ad esempio, non sono stati finanziati secondo legge i messaggi autogestiti (Mag) per carenza di fondi. Vi sono state interrogazioni parlamentari proposte da Unione popolare e una denuncia alla Procura della Repubblica di Geneva firmata Carla Nattero e Simona Simonetti, responsabili locali dell’alleanza Verdi Sinistra italiana. Tra l’altro, l’ascolto dei messaggi è piuttosto alto, fino al 5,8%.
Infine. L’Agcom sanzionerà le infrazioni rilevate con le sue stesse delibere contro le principali emittenti, o l’unico colpevole rimarrà Marco Damilano per la controproducente intervista al filosofo francese – peraltro nemico della sinistra- Bernard-Henri Lévy?