Tanti anniversari si intrecciano ai ricordi, rendendo la fine dell’estate un momento di riflessione e di sguardo rivolto, contemporaneamente, al passato e al futuro. In questo caso, infatti, ieri e domani si prendono per mano, col presente a fare da luogo di transito, in attesa di poter guardare avanti e voltare finalmente pagina. E così, a venticinque anni dalla scomparsa, non possiamo che ricordare la principessa Diana Spencer, morta a Parigi il 31 agosto 1997, nel maledetto tunnel dell’Alma, mentre era in compagnia del fidanzato Dodi al-Fayed, emblema della crisi del Regno Unito in una fase storica nella quale ancora si parlava, erroneamente, di “Cool Britannia”, con il blairismo al culmine e una sensazione di invincibilità che si sarebbe rivelata, ben presto, una pura illusione. Non sorprendono, a tal proposito, le recenti rivelazioni di Meghan Markle, oggi moglie del principe Harry, la quale ha svelato ulteriori dettagli scabrosi in merito ai rapporti sempre più difficili fra il marito e la famiglia d’origine, mettendo a nudo una monarchia mai così in difficoltà e fuori dal tempo, nonostante le celebrazioni in pompa magna per il Giubileo di platino della regina Elisabetta. La tragedia di Lady D. ha cambiato per sempre la percezione degli inglesi e il loro rapporto con la Corona, inducendo gran parte della cittadinanza ad avere un approccio assai più critico nei confronti di un’istituzione ritenuta, sostanzialmente, colpevole dell’infelicità di una donna amatissima e tuttora nel cuore di milioni di persone in ogni angolo del mondo. Fu in quel momento che l’universo dei Windsor andò in frantumi e da allora, a dispetto delle riappacificazioni, dei matrimoni in mondovisione e delle aperture della Regina, non si è più ripreso. Solo un mutamento radicale dello stile, dei costumi e, forse, un passaggio generazionale netto, con l’ascesa al trono di William al posto del padre Carlo, potrebbe restituire smalto a una realtà che sconta, in maniera decisiva, i suoi ritardi e la sua crisi epocale. Non è tanto la monarchia a essere in crisi, difatti, quanto quel modello di regno e la fastosità di una corte troppo lontana dall’informalità che domina il tempo presente.
Dieci anni fa, poi, ci diceva addio, all’età di ottantacinque anni, il cardinal Martini, precursore di Francesco e punto di riferimento per chiunque abbia creduto e continui a credere in un’altra idea di Chiesa e di umanità. Martini, simbolo dell’altra Milano, quella che nulla aveva a che spartire con la sguaiata ostentazione del potere ad opera di una certa politica e di un certo mondo imprenditoriale e del divismo, era al tempo stesso un santo già in vita e l’ancora cui si aggrappavano coloro che volevano riscoprire l’essenza più profonda del Vangelo, allontanandosi dallo sfarzo della curia romana e di un ambiente conservatore che tanti guai ha arrecato alla Chiesa e al nostro stare insieme. In Martini erano racchiusi una spiritualità, una gioia di vivere, un amore per il prossimo e il senso di una fede autentica che lo rendevano un esempio e un amico anche per tutte e tutti coloro che non erano animati dalla fede ma avvertivano, comunque, l’esigenza di riconoscersi in una figura che svettasse sulle nostre miserie quotidiane. Martini è stato capace di prendersi cura di noi senza mai puntare il dito, senza giudicare, senza mai pretendere di avere la verità in tasca e indicando la strada con la sua semplice azione pastorale. C’era in lui una bellezza interiore che ci manca moltissimo, specie di questi tempi.
Ricorre quest’anno anche il sessantesimo anniversario dell’uscita de “Il sorpasso”, il capolavoro di Dino Risi, con Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant (del primo celebriamo i cent’annidalla nascita, il secondo è scomparso di recente), simbolo dell’Italia del boom, con le città deserte d’estate e il racconto impietoso di una stagione che non è stata affatto tutta rose e fiori. Non a caso, nel finale drammatico del film viene evidenziata la componente peggiore di una stagione felice, accompagnata da un avvertimento sottile che ben pochi seppero cogliere all’epoca. Risi ci mise in guardia sugli eccessi del benessere e sui suoi lati oscuri ma, per quanto apprezzato e stimato, non venne del tutto capito, e ora ci accorgiamo di quante storture si sia portata dietro quella tendenza alla spacconaggine e all’esagerazione continua. Ora che siamo infelici, abbiamo forse capito, in minima parte, che non era la maleducazione, la tracotanza e l’esibizione volgare del successo la via giusta per costruire una comunità e convivere in maniera civile e costruttiva.
Quindici anni fa, infine, se ne andavano un buon presentatore come Gigi Sabani e, soprattutto, il maestro Luciano Pavarotti, uno dei più grandi tenori di tutti i tempi. È superfluo ricordare le sue interpretazioni di Cavaradossi nella “Tosca” di Puccini. Molto piu utile, invece, è soffermarsi sulla sua modernità, sulla sua capacità di portare l’opera lirica nella casa di chiunque e sul suo amore per la musica a trecentosessanta gradi. È stato, con invidiabile lungimiranza, uno dei primi tenori pop, felice di intonare anche brani assai meno impegnativi e abile nel dar vita, insieme a José Carreras e Placido Domingo, a un trio di fama mondiale che ha commosso le platee internazionali, regalando ovunque gioia e straordinarie interpretazioni. Ci ha detto addio a soli settantuno anni e, per quanto Bocelli e i ragazzi del Volo siano bravissimi, il vuoto si sente ed è incolmabile.
Stagione magnifica l’estate ma anche ricca, ahinoi, di dolore e di tristezza.
P.S. Quest’articolo è dedicato al genio di Enzo Garinei, scomparso di recente all’età di novantasei anni. Insieme al fratello Piero ha incarnato una rivoluzione nel mondo dell’arte e del teatro, riempiendo le nostre vite e anche il nostro cinema di gioia e di bellezza. Un gigante nel vero senso della parola.
P.S. 2 Un pensiero affettuoso ad Amadeus, presentatore garbato e simpatico che il 4 settembre compie sessant’anni. I nostri migliori auguri e un grande abbraccio.