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La solitudine dell’esistente: il tempo di ritrovare se stessi

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La solitudine è un’assenza di tempo. È questo il concetto alla base delle conferenze tenute tra il 1946 e il 1947 da Emmanuel Levinas, raccolte e ripubblicate lo scorso anno dalla casa editrice Mimesis. Conferenze che avevano lo scopo di mostrare che il tempo non fa parte del modo di essere di un soggetto isolato e solo, ma è la relazione stessa del soggetto con altri. Un invito a superare la definizione della solitudine per mezzo della socialità e la definizione della socialità per mezzo della solitudine.

Gli esseri possono scambiarsi tutto reciprocamente, fuorché l’esistere. In questo senso, essere significa isolarsi per il fatto di esistere.
L’esistere allora rifiuta ogni sorta di rapporto, ogni sorta di molteplicità. Non riguarda nessun altro all’infuori dell’esistente.

La solitudine non appare dunque, nell’analisi di Levinas, come l’isolamento di fatto, né come l’incomunicabilità di un contenuto di coscienza, ma come l’unità indissolubile fra l’esistente e l’atto del suo esistere. La solitudine sta proprio nel fatto che ci sono esistenti.

Lo studio condotto da Levinas, ormai oltre settant’anni fa, sul tempo e l’Altro per ritrovare se stessi, esistenti fuori dal tempo, è sorprendentemente e straordinariamente attuale e utile. Concepire una situazione in cui la solitudine è superata significa sondare il principio del legame che unisce l’esistente al suo esistere. Il soggetto è solo perché è uno. È necessario che ci sia una solitudine perché si dia la libertà del cambiamento, il dominio dell’esistente sull’esistere, cioè, in definitiva, perché ci sia l’esistente. La solitudine non è dunque soltanto disperazione e abbandono, ma anche virilità e fierezza e sovranità. Caratteri questi che l’analisi esistenzialistica della solitudine, condotta esclusivamente in termini di disperazione, è riuscita a cancellare, facendo cadere nella dimenticanza tutti i motivi della letteratura e della psicologia romantica e byroniana che esaltano la solitudine fiera, aristocratica, geniale.

Ma l’identità non è soltanto l’atto di partire da sé, essa è anche un tornare a sé. L’esistente si occupa di sé. L’identità non è una relazione inoffensiva con sé, ma un asservimento a sé; è la necessità di occuparsi di sé. La sua libertà è immediatamente limitata dalla responsabilità. È questo il grande paradosso: un essere libero è già non più libero perché è responsabile di se stesso. Una responsabilità enorme, che può anche diventare un peso schiacciante. E allora ci si chiede se “fuggire” alla solitudine, intesa come la cura del sé, non rappresenti anche un alleggerimento da questa responsabilità.

Un relazionarsi continuamente con il tempo, con l’Altro, per non prendersi cura di se stessi. Consciamente o inconsciamente. Un discorso che può anche essere ampliato all’intera società degli individui.

Diverse culture predispongono “vie di fuga” come soluzioni indispensabili e salutari all’effetto “gabbia” che ognuna di esse tende a produrre. La megacultura occidentale, identificabile come dell’Antropocene, non solo non ha previsto vie di fuga o alternative a se stessa, ma continua ad avere una visione distorta del mondo.

L’Ekyusi dei BaNande del Nord Kivu – Congo e lo Shabbath degli ebrei sono dei “traumi” che una cultura impone a se stessa, auto-sospensioni mediante le quali una cultura si costringe a “mettere tra parentesi” se stessa e le proprie pretese di dominio. Ciò che manca alla nostra società occidentale è esattamente l’idea del limite, del proprio limite. La nostra cultura, così piena di lumi forniti dalla scienza, è priva dell’illuminazione che proviene dalla pratica dell’auto-sospensione, dalla pratica del suo arresto. Questa brama, anche definita il male dell’Infinito, è la fonte dei problemi che affliggono la società moderna: sregolata, anomica, patogena. Le auto-sospensioni traumatiche introducono, nelle culture che le praticano, un forte senso del limite. Le obbligano a ritornare alla natura, fanno vedere loro la fine, fanno accettare l’arresto, fanno incorporare la morte. Ma non è una morte di desolazione, una desertificazione: la morte delle imprese culturali coincide con il riconoscimento dei diritti della natura.[1]

Nell’analisi della megacultura occidentale si nota il suo distaccamento dalla natura e la paura del suo arresto. Le chiusure o sospensioni ad essa ascrivibili sono periodi di riposo, ferie, vacanze, svago, divertimento… legate comunque all’aspetto economico della cultura occidentale. Invece ciò che viene auspicato è la ricerca di sospensioni o auto-sospensioni che non siano mere pause dalla routine, piuttosto ricerca e cura di se stessi e della natura.

Nella cultura dei nativi americani tutto è sacro, dal ramo dell’albero al sasso, all’acqua, alla Terra e ciò che in essa vive, ovvero tutto. Il rispetto verso se stessi, verso gli antenati, verso la vita passa inesorabilmente attraverso il rispetto per la Terra, per la Grande Madre, la Natura.

Lo scopo della meditazione zen è molto introspettivo: conoscersi di nuovo, riscoprire se stessi al netto degli schemi e delle convenzioni sociali.

L’azione della pratica della meditazione è riscontrabile su più piani:

  • Fisico
  • Emozionale
  • Psicologico

Studi e ricerche scientifiche hanno evidenziato effetti benefici oggettivi quali la diminuzione della frequenza del respiro e della pressione sanguigna, un aumento della funzionalità e flessibilità cognitiva, della stabilità emotiva, e un diffuso senso di benessere.[2] Una ricerca introspettiva di se stessi, un voler cercare e trovare il proprio io, in una solitudine che esula dai rimandi negativi e riconduce direttamente all’analisi compiuta da Levinas.

Come si fa a sconfiggere la malinconia? Essere malinconici equivale a essere folli? Bisogna guarire il corpo o la mente? O entrambi?

Sono queste, o similari, le domande che deve essersi posto Robert Burton quattrocento anni or sono,  allorquando iniziò la stesura del suo trattato sulla malinconia. Un’opera che è anche un mondo, che racchiude in sé cielo terra e inferi: dall’armonia delle sfere celesti sino agli abissi dell’inferno, il lettore viene indotto a osservare il caos che domina il mondo terreno. Ed è in questo caos che si insinua e s’impone la malinconia. La malinconia assume mille forme diverse, tante quante sono le persone.

La cura per la malinconia è raggiungere il summum bonum che, secondo Epicuro e Seneca, è la tranquillità della mente e dell’animo. Per sconfiggere questo male, o malessere che sia, la disperazione deve essere volta in speranza di rigenerazione.[3]

Levinas indicava con il termine ipostasi l’evento mediante il quale l’esistente acquisisce il suo esistere. La solitudine non è un’inquietudine superiore che si manifesta a un essere quando tutti i suoi bisogni sono soddisfatti, ma la “compagna” della sua esistenza quotidiana, assillata dalla materia. E, nella misura in cui le cure materiali scaturiscono dalla stessa ipostasi ed esprimono proprio l’evento della nostra libertà di esistenti, la vita quotidiana, lungi dall’apparire come un tradimento nei confronti del nostro destino metafisico, nasce dalla nostra solitudine, costituisce il compimento stesso della solitudine e il tentativo infinitamente grave di sopperire alla sua miseria profonda. In sintesi, la vita quotidiana è una mera preoccupazione della salvezza.

Esistere nel mondo significa agire, ma agire in modo tale che in fin dei conti l’azione ha per oggetto la nostra stessa esistenza. Mentre nell’identità pura e semplice dell’ipostasi il soggetto s’invischia in se stesso, nel mondo, invece del ritorno a sé, c’è il rapporto con tutto ciò che è necessario per essere. Nel relazionarsi con il mondo e con gli altri poi l’autore ha indicato una situazione particolare, a sé stante: la paternità. Una relazione con un estraneo che, pur essendo altri, è me, ovvero la relazione dell’io con un me stesso, che è tuttavia estraneo a me in quanto io non ho mio figlio, io sono in qualche modo mio figlio.

Nella postfazione al libro, Francesca Nodari indica le quattro conferenze di Levinas come una sorta di provocazione e insieme di eventuale risposta alle istanze del presente. Un presente disorientato, liquido, dominato dal potere tecnico-scientifico, abitato da un crescente logorio del simbolico che rischia di mettere in scacco la possibilità stessa di condividere la condizione umana, teso tra rapporti di superficie e relazioni pure, dominato da un senso diffuso di incertezza e di paura, dal pericoloso virus dell’«adiaforizzazione»[4] e insieme attraversato da una vera e propria crisi dell’umanità stessa dell’uomo, che ha trovato il suo acme nell’irruzione di una pandemia planetaria. Ed è possibile individuare proprio in questo isolamento esperito a livello mondiale il punto di partenza per mostrare l’attualità stringente delle riflessioni levinasiane.

Il lockdown, questa sospensione tanto inattesa quanto destabilizzante, ha paurosamente arrestato gli ingranaggi di una poderosa macchina economica che siamo abituati a pensare non solo come inarrestabile ma anche come universale, come un qualcosa di sacro e di intoccabile. Virus e confinamenti hanno una lunga storia nell’umanità, anche recente. Ma il coronavirus ha fatto irruzione in un mondo che si riteneva immune da questo tipo di attacchi. Una cultura che ha sempre decantato le infinite meraviglie di un mondo aperto e globalizzato. Il lockdown ci ha fatto riflettere sul fatto che una società immaginata come un insieme di individui isolati, ciascuno dei quali alla ricerca spasmodica del proprio interesse personale, è un’aberrazione e non un ideale a cui tendere.[5]

Seguendo le riflessioni di Emmanuel Levinas però si è indotti anche a domandarsi quale mondo possano mai originare degli individui incapaci di prendersi cura di se stessi. In fondo stare bene con se stessi dovrebbe essere il punto di partenza per costruire relazioni con l’Altro e con l’Alterità.

Il tempo e l’Altro di Emmanuel Levinas è un piccolo libro che racchiude in sé un grande sapere.

Il libro

Emmanuel Levinas, Il tempo e l’Altro, Mimesis Edizioni (Milano-Udine), 2021.

Titolo originale: Le temps et l’Autre.

Traduzione e Note di Francesco Paolo Ciglia.

Nuova edizione critica di Francesca Nodari.


L’autore

Emmanuel Levinas: (Kansas, 1906 – Parigi, 1995) è tra i più influenti pensatori del Novecento. Docente alla Scuola Normale Israelita Orientale di Parigi e alle Università di Poitiers, di Paris-Nanterre e alla Sorbona, in cui resta come professore emerito fino al 1979.

[1]M. Aime, A. Favole, F. Remotti, Il mondo che avrete. Virus, antropocene, rivoluzione, Utet, Milano, 2020.

[2]A. Sardi, Cervello e Meditazione. Gli Effetti Psicofisici delle Tecniche di Meditazione, Neuroscienze, 27 agosto 2020,  https://www.neuroscienze.net/cervello-e-meditazione/

[3]R. Burton, L’anatomia della malinconia, Giunti Editore S.p.A./Bompiani, Firenze/Milano, prima edizione settembre 2020.

[4]Nell’accezione che vi ha dato Zygmunt Bauman ne La società dell’incertezza, ovvero la tendenza a dispensare una buona parte di azioni umane dal giudizio morale e a volte, addirittura, dal significato morale.

[5]M. Aime, A. Favole, F. Remotti, op. cit.


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