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Il terrore corre sui social

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Che tempi quelli in cui la rete sembrava essere il contraltare democratico e partecipativo della televisione generalista. Quanto quest’ultima appariva il regno dell’omologazione e del pensiero alienanti, Internet era non solo una cittadella resistente, bensì un modello alternativo all’antica logica della centrale emittente verso un’audience indistinta. Era il paradigma della vecchia comunicazione radiotelevisiva, cui il berlusconismo conferì un tocco di brutale realismo.

La rete fece sognare. L’utopia degli anni sessanta del novecento, quella dell’informazione di base e dell’entrata in scena dei soggetti trascurati dalle culture ufficiali, si inverava.

Così fu per qualche anno, dall’inizio dei novanta con il World Wide Web all’evoluzione del nuovo millennio con l’organizzazione dei naviganti in gruppi divenuti enormi e capaci di creare oligarchie meta-fisiche: Over The Top: da Apple, a Google, a Facebook, a Microsoft, a Twitter, ad Amazon, a Tik Tok.

La normativa del febbraio del 2000 (par condicio) non fece a tempo ad occuparsi di una rivoluzione fredda che assumeva dimensioni enormi, ancorché nella prima stesura – il disegno di legge n.4197 presentato al senato il 23 agosto 1999- fossero ricompresi i servizi in rete nell’ambito di applicazione previsto. Naturalmente, pure la terminologia era figlia del suo tempo. Comunque, il pur timido cenno ebbe vita breve, visto che già all’inizio del percorso parlamentare fu chiesto di cancellarlo per ipotetici rischi censori intravisti con un eccesso di zelo. Del resto, la storia della rete ha sempre oscillato tra anarchia e liberismo, spesso intrecciandone stili e scelte.

È vero che la recente delibera n.299/22/CONS varata lo scorso 3 agosto dall’autorità per le garanzie nelle comunicazioni in vista delle prossime elezioni politiche ha inserito nell’articolato uno specifico titolo VI (articolo 28) dedicato al pluralismo sulle piattaforme di condivisione di video e social network. Ma lì ci si limita a richiamare correttamente i punti della disciplina inerenti ai sondaggi e alla comunicazione istituzionale, mentre le principali insidie si annidano altrove.

In un condivisibile contributo sulla materia pubblicato da il Sole 24 Ore di lunedì 29 agosto i due esperti giuristi Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani  evocano il codice di condotta europeo contro la disinformazione sottoscritto da 34 firmatari, tra cui alcune grandi piattaforme. È The Strengthened Code of Practice on Disinformation 2022, che potrebbe combinarsi con adeguate forme di autoregolamentazione e fornire una cornice dentro cui l’Agcom può rintracciare le premesse per agire.

Senza dubbio, dopo la vicenda di Cambridge Analytica, la società che nel 2016 svolse un ruolo rilevante nella manipolazione dei dati per orientare il clima di opinione, il quadro è mutato. I rischi si colsero con Donald Trump e la Brexit. E chissà se qualcosa non vi fu nelle stesse consultazioni italiane del 2018, che videro l’affermazione transeunte della coalizione gialloverde.

Più di un tam tam avverte che, soprattutto nei collegi uninominali incerti, vi sarebbero comunicazioni personalizzate tese a orientare l’accaparramento del consenso. I cosiddetti bot, vale a dire la macchina algoritmica senza volto e senza firma, sfrecciano nei social provenienti dal dark Web, la vastissima area nascosta di Internet terreno di coltura di cose terribili e spesso criminose.

La Repubblica del passato lunedì ha ripreso un’inchiesta del quotidiano Blick di Zurigo, che riferisce di un rapporto del servizio di informazione della confederazione elvetica. Intendiamoci: complottismo e dietrologie sono spesso un albi perfetto per non approfondire verità più semplici ed evidenti. Si tenga conto, però, che la Svizzera sfugge alle disposizioni del regolamento sulla privacy voluto nel 2016 (n.679) dall’unione europea. Quindi, i sospetti sono legittimi.


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