E così, dopo Javeir Marías, questo triste settembre si porta via un altro genio visionario. Addio a Jean-Luc Godard, il regista che inventò la nouvelle vague, il cinema della rivoluzione globale, anticipatore del ’68 e anello di congiunzione fra il neo-realismo di Rossellini e la narrazione amara e senza concessioni all’ipocrisia di Pasolini. Basti pensare a Ro.Go.Pa.G. (la G sta per Gregoretti) per rendersi conto di quanto abbia dato alla filmografia globale, rinnovando i linguaggi, le modalità espressive, i temi ma, soprattutto, politicizzando ogni singola scena e rendendo il cinema un elemento di rottura, di denuncia, di critica sociale, rompendo definitivamente il clima mieloso che aveva caratterizzato il periodo fascista e costituendo un esempio per ogni cineasta.
Esiste un prima e un dopo, Godard è uno spartiacque. Del resto, in novantuno anni di vita, non ha mai concepito la banalità, non ha mai accettato le convenzioni, non si è mai arreso alla superficialità, non ha mai tollerato che un film potesse non essere caratterizzato da una tensione etica costante, da un entusiasmo disincantato, da una voglia di vivere che è stata la sua cifra fino alla fine, anche quando ha scelto di sottoporsi all’eutanasia perché non aveva più nulla da dire e da dare. Se n’è andato quando si è sentito esausto, e per lui vivere senza slancio non era immaginabile. Non avrebbe mai accettato di sopravvivere, di trascorrere i giorni senza idee, di non avere la forza di inventare ancora, di lasciarsi andare fino a spegnersi lentamente, senza più riuscire a sconfiggere i demoni contro cui si era battuto per tutta la vita. E i mostri per lui erano il conformismo, l’uniformità di pensiero, la rassegnazione, le frasi fatte e i luoghi comuni, una certa retorica che proprio non sopportava, l’edulcorazione della pillola quando, invece, era necessario alzare la voce. Il suo cinema, al contrario, è stato, sempre e comunque, un grido, un pugno nello stomaco, un ring, una sfida all’ordine costituito, un sovvertimento dell’esistente e un cambiamento del modo di pensare dell’opinione pubblica.
Non concepiva il suo lavoro in maniera diversa: un cinema disimpegnato non avrebbe mai potuto portare la sua firma. Fu sempre un anticipatore: comprese prima e meglio di altri il vento che spirava in tutto il mondo, il desiderio di emancipazione delle nuove generazioni, la voglia di riscatto dei figli del dopoguerra, la loro ansia di futuro, la loro assoluta volontà di conquistare spazi ed essere protagonisti. E le sue opere hanno anticipato, accompagnato e valorizzato questa spinta progressista, questo vento che spirava ovunque e dava l’impressione che tutto fosse possibile, questa meraviglia di cui oggi non è rimasto nulla, al punto che viviamo in una società sempre più fragile, stanca e priva di entusiasmo. Forse è anche per questo che ha deciso di dirci addio: non poteva vivere in un contesto senza rinnovamento, in un Occidente senza utopie, in una storia che si credeva finita e non lo era per nulla, in una resa collettiva, in un tempo fuori dal tempo e privo di aneddoti, di narrazione, di coraggio e di gusto per la follia, lui che di follia viveva e che senza ha scelto di morire.
Se ne va un genio, non è un’esagerazione, anche se il nostro le apprezzava molto, e alla solitudine si mescola il rimpianto per tutto ciò che, in questo disincanto generale, abbiamo perduto.
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