BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Cofano, segretario generale della comunità Papa Giovanni XXIII: “Ad oggi non ho visto una mediazione delle Nazioni Unite, né tanto meno quella dei governi europei uniti”

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Percorrendo la M06, l’arteria che dal confine ucraino-ungherese di Berehove porta alla città dell’Ucraina centro-occidentale di Ternopil, non si scorgono i segni dei bombardamenti che invece hanno sfregiato il volto dei maggiori centri dell’est e del sud della terra di frontiera tra Europa e Russia. Un particolare che è saltato subito agli occhi dei 50 volontari italiani della carovana della pace di #Stopthewarnow (la rete di 175 associazioni nata per lanciare un messaggio di solidarietà alla popolazione ucraina, ma anche di netta opposizione a un conflitto che dura ormai da otto anni), diretta a Mykolaiv, città meridionale del Paese dove si continua a bombardare. Poco più di mille chilometri, 16 ore di viaggio, passando per i Carpazi, i villaggi e le immense distese di grano. Procedono così tutti incolonnati sulla strada gli undici pulmini con diverse tonnellate di aiuti umanitari, destinati alla popolazione stremata da mesi di guerra e dalla fame.  L’iniziativa #Stopthewarnow è partita il 29 agosto da Gorizia con l’obiettivo di raggiungere la città di Mykolaiv, via Odessa, entrambe sulle sponde del Mar Nero e mete turistiche scelte dai russi. Prima di quel fatidico 24 febbraio, pare che il 60 per cento della popolazione fosse filorussa già dal 2014, ma con il deflagrare della guerra in diverse aree del territorio, molti di loro hanno lasciato l’Ucraina mentre altri hanno cambiato opinione e atteggiamento, schierandosi in favore dell’integrità territoriale ucraina. Mykolaiv, che dista 10 chilometri dalla linea del fronte, è una delle città più colpite dai bombardamenti, che tre giorni fa hanno causato la morte di due bambini e il ferimento di altri tre. Salgono così a 379 i piccoli uccisi dalla sporca guerra. Abbiamo seguito i volontari della carovana della pace, con il suo carico di viveri e beni di prima necessità, dalla partenza fino all’arrivo in una città svuotata, con metà della popolazione fuggita all’estero e a Kiev. Sono rimaste 200mila persone, per lo più donne e anziani, abbandonati a un destino incerto. La quotidianità è scandita da momenti di apparente normalità malgrado gli allarmi bomba, che scattano continuamente di giorno e di notte, costringendo la gente atterrita a rifugiarsi in cantine ammuffite. Fra un allarme e un altro, parliamo con il coordinatore della rete che chiede il silenzio delle armi, Gianpiero Cofano, segretario generale della comunità Papa Giovanni XXIII. Un operatore umanitario come tanti altri che lavorano nei teatri di guerra dove non va nessuno, mettendo a rischio la propria vita per portare un po’ di sollievo alle prime vittime di ogni conflitto: i civili.

Può spiegarci cosa vi ha spinto ad andare in Ucraina, sfidando così le logiche militaristiche di chi oggi vede nelle armi l’unica via percorribile?

«La spinta è partita dalla volontà di migliaia di soci appartenenti a questa rete di fare qualcosa per la pace. Bisogna interrogarsi e non rimanere inermi dinnanzi agli schermi che nelle prime settimane facevano vedere soltanto morti, bombardamenti e milioni di persone in fuga. Noi abbiamo semplicemente coordinato le tantissime organizzazioni che compongono questa rete molto atipica, non formale, che raggruppa ogni colore, mette insieme schieramenti diversi e ogni tipo di movimento. Dal più laico al cattolico. Unisce la gente di buona volontà, che vuole fare e dire qualcosa dinnanzi all’atrocità di una guerra alle porte di casa nostra. Certo, ci meravigliamo perché siamo a un chilometro da casa nostra, ma di quel che accade in Yemen, Siria e in altri 45 posti al mondo non interessa a nessuno. Noi mangiamo quel che i media ci propinano. In effetti, il sogno di Stopthewarnow non è solo iniziare a creare un movimento nazionale, ma vorrebbe andare oltre coinvolgendo altri Stati d’Europa e chissà anche del mondo, in modo tale che si possa intervenire in tutti i luoghi di conflitto».

Lei una volta ha detto “noi non portiamo soltanto aiuti, il nostro è soprattutto un messaggio di pace”. Le bandiere arcobaleno attaccate ai pulmini lo testimoniano..

«Dico sempre che i nostri non sono aiuti umanitari, ma di pace, o meglio distribuiamo pasta, riso, legumi, medicine ma l’aiuto è un veicolo che deve portare alla costruzione della pace. Certo, se hai fame non posso darti da mangiare le mie filosofie, andresti via con lo stomaco vuoto, e allora noi vogliamo sederci al tavolo con te con quel poco che possiamo condividere, capire quel che ti sta accadendo e stai vivendo. Condividere anche se per pochi attimi la tua sofferenza, per dirti che il primo segno di pace è “io sto con te”.

Avete messo su altre “operazioni di pace e di aiuti”?

«Due mesi fa abbiamo fatto la più grande evacuazione verso l’Italia, con un gruppo di 63 orfani provenienti dagli istituti di Mariupol e Kramators’k (città dell’Ucraina orientale nell’oblast’ di Donec’k, ndr). Un’operazione complessa anche per il rilascio delle autorizzazioni del governo militare. A questa evacuazione hanno partecipato tre movimenti, dal punto di vista logistico, organizzativo e finanziario: la Cgil, che mi ha organizzato tutta la logistica degli autobus in Ucraina, Polonia fino al trasferimento in Sicilia; un movimento politico, quello dei 5Stelle, che hanno pagato con i soldi delle trattenute dei compensi il volo da Cracovia del costo di 70mila euro e un movimento cattolico. Il collante attorno alla pace è stato la salvezza di questi bambini».

Voi invocate la pace, ma quale potrebbe essere a suo avviso la strada per far tacere le armi?

«Il dibattito politico, ma se volete anche del mondo civile europeo, che non mi appassiona, è dare o non dare armi. Una questione che si scontra anche col diritto alla difesa: c’è un aggressore, questo è chiaro, e un aggredito. Non voglio discutere se sia giusto o no dare armi, anche se la mia idea è che debbano sempre tacere, ma mi chiedo che cosa abbiano fatto l’Europa e il mondo nel frattempo. Si sono per caso sforzati di portali ad un tavolo negoziale? Ad oggi non ho visto una mediazione delle Nazioni Unite, né tanto meno quella dei governi europei uniti».

E’ intervenuta però la mediazione della Turchia di Erdogan..

«Abbiamo dato adesso a Erdogan il ruolo di mediatore mondiale, ma sappiamo chi è il leader turco. E’ il paradosso della storia. Lui ha tentato di riunire al tavolo negoziale le due parti, ma in realtà il suo obiettivo è di curare i suoi interessi. Abbiamo un’istituzione che sta morendo, l’Onu, che è arrivata tardi dal punto di vista umanitario. E’ mai possibile che a fornire i dissalatori ad una città che prima del conflitto faceva 500mila abitanti, abbia dovuto provvedere la società civile italiana? Perché devono farlo i donatori, che ci stanno offrendo 10 euro per costruirlo e non invece i governi dinnanzi ad un’altra catastrofe umanitaria? Questa è una guerra per procura lo si è sempre detto e d’altra parte lo si vede, già fornire delle armi e non combattere in prima persona, significa che ti stai facendo una guerra per procura. Contro chi? La Russia, con la quale prima hai stretto rapporti commerciali di ogni tipo. La pace è un bene universale e deve partire innanzitutto dai nostri Paesi, ai quali chiediamo un impegno concreto affinché questa pace venga costruita».

Quando avete superato il ponte di Mykolaiv, divenuto bersaglio dei bombardamenti, che situazione avete trovato in città e nella vicina Odessa?

«La prima volta che siamo entrati in Ucraina agli inizi di questo conflitto, si respirava un clima di grande angoscia, paura, e disperazione di milioni di persone che fuggivano. Oggi si potrebbe azzardare che a sei mesi da questa offensiva su vasta scala, almeno a Odessa c’è un tentativo di normalità. Le stesse autorità ucraine esortano ad un ritorno alla vita. Mentre, stando sul fronte, a Mykolaiv, abbiamo constato che la situazione rimane drammatica. E l’incontro di questa settimana con le autorità cittadine ne sono un ulteriore conferma. Ci dicono che se le fabbriche continuano a restare chiuse, se il gas e l’acqua potabile non arrivano nelle case, sarà difficile per le 200mila persone rimaste in città superare l’inverno».

Fonte: Strumenti politici


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