L’invasione è solo uno stato d’animo, lo sappiamo bene, ce lo dicono i numeri. Ma quella parola se ripetuta infinite volte prende forma e diventa vera, produce ansia, mette paura. Lo abbiamo imparato a conoscere il meccanismo della paura, da almeno quindici anni condiziona le nostre estati con l’annuncio di un milione pronti a partire dalla Libia; condiziona le campagne elettorali che virano sull’immigrazione, anche se non è il tema del giorno. Come è successo in questa campagna elettorale, iniziata senza preavviso ma che si è subito appropriata del “collasso” all’hotspot di Lampedusa, che in realtà era in grande sofferenza da tempo anche se la politica non se ne era proprio accorta.
È lo slogan che conta, è importante rilanciare la parola d’ordine: invasione. Le persone e la loro sofferenza interessano poco o niente. In questa campagna elettorale che dà per scontata la vittoria della destra, ha fatto irruzione l’assassinio di un uomo, in mezzo alla strada, sotto gli occhi di decine di persone. I giornali più attenti a rilanciare la teoria dell’invasione lo hanno raccontato distrattamente: Libero non aveva la notizia in prima pagina, il Giornale diceva “ucciso a bastonate per le avances”, come per trovare una ragione adeguata. Grande evidenza su Repubblica, Corriere, la Stampa.
Cosa abbia mosso davvero l’assassino ce lo diranno le indagini. Quello che è certo è che se guardassimo il negativo di quel filmato con i neri al posto dei bianchi, farebbe un effetto diverso. Ce lo dice la storia.
Il bianco e il nero
“Mississipi, fine degli anni 80: un uomo nero uccide due persone bianche colpevoli di aver stuprato e torturato la figlia di dieci anni. Nell’arringa finale l’avvocato difensore – bianco – chiede ai giurati, prima di emettere il verdetto, di ripercorrere il dramma dello stupro e delle violenze subite dalla bambina: voglio che la vediate signore e signori quella creatura… e ora immaginate che sia bianca”.
L’omicidio di Alika Ogorchukwu (cittadino disabile di origine nigeriana), ad opera di Giuseppe Ferlazzo a Civitanova Marche, il 30 luglio, ha avuto un’ampia copertura mediatica: le immagini drammatiche della violenza, delle mani che colpiscono e co-stringono la vittima, del corpo – dell’omicida – che sovrasta e immobilizza l’altro che scalcia nel vano tentativo di salvarsi, sono state rilanciate e condivise decine di migliaia di volte.
In attesa di informazioni sulle condizioni – fisiche e psichiche – dell’omicida, ci si attende dall’informazione un esercizio di accuratezza rispetto al contesto in cui sì è manifestata la brutale violenza: quante le persone presenti, quante con uno smartphone a disposizione?
Crediamo che la domanda che ciascuno/a di noi bianco/a dovrebbe porsi è la seguente: se la persona disabile aggredita e immobilizzata a terra fosse stata bianca, l’esito forse sarebbe stato differente? Quanto la stigmatizzazione e l’invisibilità – anche mediatiche – della marginalità alimentano il distacco e l’indifferenza?
Come ha messo in evidenza lo studio condotto da Marcello Maneri e Fabio Quassoli (a cura di) “Un attentato ‘quasi terrroristico’. Macerata 2018, il razzismo e la sfera pubblica al tempo dei social media” sulla strage di Macerata – aggressione compiuta da Luca Traini nei confronti di 6 persone nere a cui è stata riconosciuta l’aggravante razziale – “un pervasivo discorso razzista di matrice coloniale continui a colpevolizzare le vittime razzializzate e finisca per giustificare il carnefice bianco sia nei giornali sia nell’informazione televisiva di prima serata”.
A partire dal nome utilizzato per la vittima “un uomo nigeriano”, “un immigrato”, “un” quasi mai con il nome proprio.
Se è comprensibile la centralità mediatica assegnata a chi commette un crimine efferato, è altrettanto indispensabile allo scopo di restituire un’informazione accurata e corretta dare attenzione alla vittima, raccontare la sua storia, il suo vissuto. Solo così si riesce a elaborare “strategie di resistenza e resilienza per le persone razzializzate che subiscono l’emarginazione e contribuire alla creazione e alla cura di una società inclusiva, antirazzista che si interessa di tutte le soggettività che ne fanno parte”, come affermano le attiviste Ada Ugo Abara, Mackda Ghebremariam Tesfau e Susanna Owusu Twumwah.
L’arma
Se c’è una guerra in corso e una campagna elettorale appena iniziata, l’immigrazione diventa subito “un’arma”. L’oggetto non è l’arma del delitto, una stampella in questo caso, ma è il flusso migratorio in se ad essere descritto come un’arma. Nel giorno in cui a Civitanova Marche si consumava l’omicidio di Alika Ogorchukwu, la prima pagina di un grande giornale italiano apriva con questo titolo: l’arma dei migranti.
Si dice che “sta partendo un numero anomalo di profughi verso le nostre coste” e che sarebbero i mercenari filorussi della brigata Wagner a spingere i barconi in mare per “destabilizzare”, mettere sotto pressione l’Italia e l’Europa. A dimostrazione di questa tesi, sostenuta da una qualificata fonte dei nostri apparati di sicurezza, si pubblicano statistiche che rendono evidente l‘aumento degli arrivi: scrive Repubblica che “Gli sbarchi in Italia dall’inizio dell’anno sono 38.778, contro i 27.771 di tutto il 2021 e i 12.999 del 2020 in piena pandemia”. Sembra davvero tutto molto allarmante, ma i dati sono falsi, non è chiaro da dove siano stati presi. Sul sito del ministero dell’interno si legge chiaramente che gli arrivi sono il doppio: al 31 dicembre 2021 erano 67.040 e l’anno precedente, nel 2020, in piena pandemia, erano stati 34.154. I numeri normalizzano un po’ lo spavento iniziale e soprattutto confermano che l’immigrazione è un fenomeno strutturale, sempre uguale a se stesso ormai da almeno quindici anni. E se parliamo di emergenza è solo perché ogni anno facciamo finta che siano arrivati tutti insieme, senza preavviso e, soprattutto, facciamo finta che sia sempre un numero insostenibile. Ma non è mai stato vero.
Si perché in effetti l’invasione non c’è mai stata. Quella parola produce una sensazione che non ha mai avuto alcun rapporto con la realtà. È uno slogan che la politica usa per mettere paura, per costruire uno stato d’animo ansioso collettivo e anche per giustificare la sua incapacità di gestire il fenomeno come avrebbe dovuto imparare a fare ormai da molto tempo. Per rendere l’idea possiamo dire che i 38 mila arrivati fino ad oggi sono la metà del pubblico dei Maneskin al Circo Massimo a Roma. Davvero vogliamo parlare di invasione?
Allora qual è il senso e l’utilità della parola “arma” correlato ai migranti, usato nel titolo di apertura di un giornale all’inizio di una campagna elettorale? È in realtà il solito allarme a cui siamo ormai abituati ad ogni inizio estate. Si è sempre detto che sulle coste della Libia c’era un milione di persone pronte a partire, anche se poi non ne sono mai arrivate tante. L’ultima volta in cui lo spauracchio del milione pronti a partire è stato agitato era l’estate scorsa, con la crisi dovuta alla fuga degli Stati Uniti e l’avanzata dei talebani in Afghanistan. In quei giorni alcuni giornali hanno scritto che erano due milioni pronti a partire, qualche giornale azzardava addirittura quattro milioni. Poi ne sono arrivate solo poche migliaia. L’empatia e la commozione per quei disperati aggrappati agli aerei in partenza da Kabul sono finite rapidamente. Tengono viva la memoria e la solidarietà solo un pugno di associazioni che hanno riportato in Italia alcuni di quegli afgani che il mondo ha prima usato e poi dimenticato.
Destabilizzare
L’emergenza è l’invivibilità dei centri che dovrebbero accogliere i naufraghi. Ma in assoluto i numeri non sono eccessivi, ingestibili. Quindi, non è ben chiaro perché per gli arrivi dalla Libia si scelga la parola “destabilizzare”, che per la Treccani ha un significato molto netto e molto serio: “nel linguaggio politico e giornalistico, togliere stabilità, scuotere le fondamenta del potere politico, di un sistema politico-sociale, o in genere delle istituzioni vigenti, di solito con finalità eversive: un attentato finalizzato a d. le istituzioni democratiche”. Siamo davvero a questo per l’arrivo di 38.778 persone?
Sembra che il barcone sia più spaventoso quando arriva di quando parte. Abbiamo smesso di inorridire per le atrocità che si commettono nei centri di detenzione libici, per gli stupri, le torture, gli omicidi arbitrari, le fosse comuni. Intanto, senza tanti allarmi e tante polemiche il parlamento ha appena rifinanziato le attività della guardia costiera libica che in più di un rapporto di intelligence, in più di una relazione delle Nazioni Unite, in più di un’inchiesta giornalistica è indicata come responsabile di violazioni dei diritti umani. Non abbiamo mai smesso, invece, di assecondare la propaganda, che pretende di dirci quando avere paura, anche solo delle ombre.
Profughi che non invadono
C’è un altro numero e un altro stato d’animo che vanno menzionati in coda a questa riflessione di inizio di quella che si annuncia come una delle campagne elettorali più aperte all’uso di un linguaggio violento negli slogan della politica in tema di migrazioni, a destra, al centro, a sinistra. È il flusso di profughi in fuga dalla guerra in Ucraina che sembrava averci aiutato a capire come si deve affrontare una crisi come quella. Sul sito del Ministero dell’Interno c’è il primo esempio di un approccio diametralmente opposto a quello appena descritto: in home page un richiamo ad una pagina sui profughi ucraini si apre con la frase, benvenuti in Italia. Non c’è allarme qui. Non ci sono fonti di intelligence che attribuiscono ai russi i flussi di profughi. E meno male, è sacrosanto che sia così, chi scappa ha il diritto di essere accolto. Anche se arriva in numeri importanti. Il 6 luglio il Ministro dell’Interno ha detto che dopo quattro mesi di guerra sono arrivati in Italia 150 mila profughi ucraini. Quasi cinque volte di più di quanti ne siano arrivati dal mare e dai Balcani.
E allora qual è il senso della parola “destabilizzare” per chi arriva dal mediterraneo. Come può un flusso così ridotto spingere il giornalismo italiano ad assecondare l’allarme e a rilanciarlo parlando dei migranti come “arma”? il ruolo del giornalismo oltre a riportare le dichiarazioni di politici e di fonti autorevoli, non dovrebbe essere quello di verificare e di smontare una narrazione distorta della realtà?