«L’intera area di 30 chilometri in territorio siriano non può più considerarsi sicura. Stiamo bene, ma siamo stati fortunati perché i bombardamenti sono avvenuti proprio vicino casa. Grazie di cuore per il vostro interessamento». Rispondeva così Karim (nome di fantasia per tutelare l’anonimato di un curdo siriano che vive a Kobane), lo scorso 17 agosto dopo che un attacco attribuito all’esercito turco, e confermato dallo stesso Karim, ha causato la morte di undici persone e il ferimento di altre otto nel villaggio di Jarqli nel nord della Siria, nei pressi dell’enclave curda simbolo della resistenza al Daesh. «Hanno bombardato e sparato con mitragliatrici e altre armi leggere contro l’Asayish (le forze della sicurezza interna), a poco meno di un chilometro di distanza dal confine turco», racconta il giovane curdo.
Altri attacchi erano stati segnalati direttamente dall’agenzia di stampa governativa Sana, che sempre il 17 agosto denunciava la mancanza di acqua per il quindicesimo giorno consecutivo nella città nord-orientale di al- Hasakah, “dove gli invasori turchi e i loro mercenari terroristi continuano gli attacchi alla stazione idrica di Alouk, accrescendo le sofferenze degli abitanti”. Accuse pesanti, anche se non nuove, che seguono di pochi giorni le dichiarazioni del ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu, che l’11 agosto partecipando alla 13ª Conferenza degli ambasciatori ad Ankara aveva porto un ramoscello d’ulivo (questa volta nell’accezione biblica del termine e non come l’omonima operazione militare del gennaio-marzo 2018) a Damasco, proponendo una “riconciliazione” fra il regime siriano e l’opposizione. Un’idea avanzata diversi mesi prima dal capo della diplomazia turca al suo omologo siriano Faisal Mekdad a margine del vertice del Movimento dei Paesi non allineati, svoltosi lo scorso ottobre a Belgrado.
“Dobbiamo riunire l’opposizione e il regime per la riconciliazione, altrimenti non ci sarà una pace permanente”, sono state le parole di Cavusoglu rivolgendosi ai giornalisti nella capitale turca, evidenziando la necessità di un’amministrazione centrale forte per prevenire la disgregazione della Siria e ciò sarebbe possibile solo con l’unità del Paese. Immediata la risposta dei siriani, che al grido di “Noi non ci riconcilieremo”, hanno manifestato in migliaia nelle diverse aree di influenza turca nel nord e nei dintorni di Idlib, controllati da Hayat Tahrir al-Sham (Hts, il gruppo considerato vicino ad al-Qaeda in Siria). «Non può esserci riconciliazione con un regime che si è macchiato del sangue del suo popolo, che dovrebbe comparire solo davanti ad una corte penale internazionale per rispondere dei crimini commessi in Siria», riferisce ai nostri taccuini Samih, membro del Partito democratico del popolo siriano. La sua voce si unisce a quella del noto dissidente siriano ed ex capo della coalizione di opposizione e del Consiglio nazionale siriano, George Sabra che, rispondendo all’Osservatorio siriano per i diritti umani, bolla la proposta come una violazione del processo politico approvato dalle risoluzioni Onu. “Con l’approvazione di quelle risoluzioni non ha una logica parlare di “riconciliazione” dopo le violazioni commesse dal regime in undici anni, e i crimini documentati dalle immagini entrate in possesso della comunità internazionale, come l’uso di armi chimiche, il dossier Caesar e la strage di Tatamon. E’ ridicolo, uno sprezzo del diritto internazionale e dell’intero sistema dei diritti umani».
L’incontro di Belgrado fra l’alto diplomatico turco e la sua controparte siriana è il primo dall’inizio della guerra civile del 2011, quando Ankara sostenne il dissenso popolare consigliando ad Assad di ascoltare le richieste dei manifestanti. Nulla di fatto, perchè le forze di sicurezza reagirono con ferocia alle proteste e la retorica di Erdogan contro il suo amico di una volta è cresciuta di conseguenza, culminando con le dichiarazioni del presidente turco che nel 2017 definisce Assad un “terrorista coinvolto nel terrorismo di stato”. Ritorneranno i tempi in cui i due presidenti trascorrevano le vacanze a Bodrum, sulle coste dell’Egeo? E’ presto per dirlo. Lo scorso luglio, i leader di Turchia, Russia e Iran si sono incontrati a Teheran, confermando quanto deciso nei precedenti colloqui di Astana di voler esercitare un ruolo chiave in quel nodo gordiano che è la Siria, sottolineando “il loro incrollabile impegno per la sovranità, l’indipendenza, l’unità e l’integrità territoriale” della Repubblica araba, “in base agli scopi e ai principi della Carta delle Nazioni Unite”. Le stesse parole richiamate dal ministro degli Esteri Cavusoglu e alle quali sia l’opposizione ad Assad sia gran parte del popolo siriano ha risposto con un sonoro “no”.