Piero Angela divulgatore. Certo. Il più bravo, il più grande. Non vorrei però ci dimenticassimo che era un giornalista. Lo ricordo senza alcuna intenzione, o rivendicazione, corporativa (che peraltro stonerebbe in una testata quale “Articolo 21”), ma perché credo che per il mestiere di giornalista valga la pena fermarsi a riflettere sulla “divulgazione” di Piero, sul suo modo d’essere divulgatore.
D’altra parte, che facendo divulgazione non abbia smesso di fare il giornalista, lo ha detto lui stesso con una bella espressione che qualcuno ha fortunatamente ripreso in questi giorni, e che suona più o meno così: finora mi sono occupato di una cosa al giorno, adesso vorrei occuparmi di una cosa all’anno. E non è che fossero cose da poco quelle di cui si occupò prima di mettersi a “divulgare” se si pensa che è stato corrispondente per la Rai da Parigi negli anni della guerra d’Algeria, inviato nel ‘67 alla Guerra dei sei giorni e nel ‘68 in Vietnam.
E non era da poco la notizia che gli capitò di dare, da conduttore, in apertura del primo numero di un nuovo telegiornale Rai, quello delle 13.30: 15 gennaio 1968, terremoto del Belice. I grandi fatti non gli sono mancati, ma a un certo punto decide di “andare dentro le cose”: metto queste quattro parole tra virgolette perché sono quelle che usava per dire del suo lavoro di divulgatore. E il giornalismo non è, non dovrebbe essere, l’andare dentro le cose? Per il dizionario Battaglia, divulgare è “pubblicare, diffondere, rendere accessibile a tutti ciò che era privilegio di una ristretta cerchia”.
È proprio quello che il giornalista Piero Angela, a un certo punto del suo percorso, sceglie di fare: andare dentro cose tanto affascinanti quanto difficili e trascurate, per “renderle accessibili a tutti”. Sceglie di diffondere la conoscenza scientifica, genere inesistente nella televisione di allora. Sceglie di rendere un servizio, e lo fa per cinquant’anni, dalla Destinazione uomo del 1971 al Superquark di questa estate. “Ho cercato di raccontare quello che ho imparato”, ha scritto nella lettera con cui ha voluto dare il suo ultimo saluto a ciascuno di noi, suoi spettatori.
Sta qui la lezione di Piero: entrare nelle cose per trasmettere quel che si è trovato. Studiare, imparare per diffondere la conoscenza, per rompere il “privilegio della ristretta cerchia”. Scavare per far sapere: e qui c’è un legame tra il giornalismo di divulgazione e il giornalismo d’inchiesta. Si chiama servizio pubblico. Che Piero rende da par suo: chiarezza e sobrietà. Ha detto Giorgio Parisi: «Piero Angela ha avuto l’intuizione che semplificando il linguaggio la scienza avrebbe iniziato a piacere a tutti. Ha funzionato. È bastato cambiare il modo di raccontarla».
Se il successo non lo ha reso un divo, la ragione sta nel modo in cui ha vissuto il suo rapporto con il pubblico: all’insegna della responsabilità, la responsabilità di chi rende un servizio. Ce lo dice alla fine del suo messaggio di addio: «Penso di aver fatto la mia parte. Cercate di fare anche voi la vostra per questo nostro difficile Paese».
Con queste parole il pubblico è comunità, lo spettatore una persona, anzi un cittadino. Una lezione da non dimenticare.
Questo è stato Piero Angela, un costruttore del servizio pubblico. Questa è stata la Rai.