Il parlamento è ai titoli di coda e il governo deve stare nei confini stabiliti dal presidente Mattarella. L’amministrazione, però, non ammette pause e gli obblighi assunti non possono essere elusi.
Di tale natura è l’utilizzo dello stanziamento di 90 milioni di euro previsto dalla legge di stabilità per l’anno in corso. La cifra aumenta a 140 ml nel 2023. Si tratta di un tesoretto aggiuntivo rispetto al tradizionale fondo per il pluralismo e l’innovazione, croce e delizia quest’ultimo di ogni norma finanziaria pre-natalizia.
Ebbene, dopo un lungo tiro alla fune, infine l’esecutivo accolse il grido di dolore che veniva dal settore. La tanto mitizzata transizione digitale richiede un investimento, affinché le aziende possano entrare nella stagione tecnologica affascinante ma rischiosa senza morti e feriti.
Ogni ristrutturazione esige un progetto rigoroso, che affianchi l’ansia di uscire dall’età analogica con un corpo di tutele per chi lavora e garantisce la fattura del prodotto. Di qui, l’esigenza di un investimento specifico e dedicato: 230 milioni in un biennio, neppure pochissimo. Accanto a tale entrata vi sono, poi, i sussidi per la carta (oggi, con i rincari, quanto mai importanti) e i rimborsi per le spese inerenti alla distribuzione recentemente legittimati dall’Unione europea.
Insomma, che ne è degli zecchini d’oro frutto di un laborioso dibattito? Come hanno sottolineato con preoccupazione la Federazione degli editori (Fieg) e il sindacato dei giornalisti, il rischio che rimangano in qualche cassaforte di palazzo Chigi è assai elevato. Com’è noto, infatti, non basta che le risorse siano formalmente appostate in un capitolo del bilancio dello stato. Se non vi sono atti burocratici puntuali, nulla accade. Il pericolo è che con la crisi politica entri definitivamente in crisi pure il già pericolante sistema dell’editoria. I dati resi noti dall’Osservatorio sulle comunicazioni dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni sono impietosi: nel primo semestre del 2022 le copie giornaliere di quotidiani vendute sono scese a 1,61 ml, con una flessione dell’8,5% rispetto al corrispondente periodo del 2021 e del 31,6% nei confronti del 2018. Ricordiamo che nel 2008 eravamo a 6 ml. Le copie digitali, inoltre, non avanzano granché. Se mai, vi è una riduzione su base annua del 2,7% e, comunque, il totale non arriva a 200.000 esemplari.
Appare chiaro il motivo per cui un’iniezione di denaro è urgentissima al fine di sostenere l’ammodernamento aziendale, migliorare la struttura diffusionale e mettere un freno all’incubo di un dilagante precariato. A proposito: la legge del 2012 sull’equo compenso non si è mai sbloccata, con ritardo doloso.
Il sottosegretario con delega Giuseppe Moles dovrebbe far sentire la sua voce, con grida e non sussurri. Sembra davvero abnorme che un comparto così malato venga lasciato a sé stesso, con un’omissione palese di soccorso.
Serve un intervento immediato, che sblocchi la situazione ed eviti la tragedia incombente. Non si dica che non è possibile o che non ci sono più i tempi. Se vi fosse la volontà, la vicenda si chiuderebbe positivamente in pochi giorni.
A meno che, il dubbio è lecito, non si persegua una linea recessiva, volta all’eutanasia della stampa e delle testate. Meno si sa, meglio è? Sudditi e ignoranti: è questo che si vuole diventi la corteggiata società civile?
L’unico fiore all’occhiello del governo rimarrà la legge sul diritto d’autore, di cui – peraltro-mancano vari decreti attuativi? Al di là del merito, in quel caso si è solo recepita una direttiva europea, senza fantasia o creatività.
La stessa Agcom, cui spetta un compito di vigilanza generale, avrebbe motivo di sollecitare governo e parlamento attraverso un’apposita segnalazione.
PS. Arrivano i regolamenti dell’Autorità e della Commissione bicamerale applicativi della par condicio. D’ora in poi, non ci saranno scuse. La campagna elettorale è troppo delicata per non venire tutelata anche nei suoi aspetti mediatici. Adesso si passa dal cartellino giallo a quello rosso. Dalla scorrettezza alla violazione di legge.