Che faccia hanno, che volti, le migliaia di giornalisti precari che si spezzano la schiena senza mai piegarla, in Italia?
Quei giornalisti-giornalisti che portano sul serio, al tavolo dell’informazione, le Notizie. Pur sottopagati, malpagati o non pagati affatto. Che per eleganza chiamiamo freelance ma di fatto sono precari, non stabilizzati, non soggetti a tutela legale quando vengono bersagliati di querele temerarie che pesano sulle loro notti insonni, sulle loro tasche, e su un futuro che già si muove tentoni sul filo del rasoio di suo.
Come vivono il quotidiano, quei giornalisti?
Che giornate si nascondono dietro sigle, acronimi e firme per esteso?
Quei giornalisti devono avere dignità, contorni definiti, nomi e cognomi, gambe che si muovono in un corteo che non deve essere proclama ma sostanza viva alla forma di una necessità, quella di risvegliare davvero le coscienze, di riscoprirsi artigiani della notizia, di risollevare le sorti di una professione sacra, delicata, necessaria. Che annaspa da troppo tempo, monca talvolta del suo obiettivo prioritario: avere unici padroni i lettori ed essere servizio pubblico.
Ma come può una missione così delicata essere delizia e croce di un mare magnum precario? Come è possibile svilire con paghe da fame, minacce e bavagli, precariato e incertezze, un ruolo non importante ma fondamentale per una società civile evoluta e democratica quale è quello del giornalista?
I giornalisti giornalisti in Italia sono per lo più precari.
Sono quasi 30 i giornalisti giornalisti in Italia che vivono sotto scorta privati del bene più importante, la libertà anche nelle piccole cose.
Molti giornalisti giornalisti in Italia svolgono lavori secondari, chiusi nei call center o schiacciati tra cucine e tavolini nei ristoranti per sbarcare il lunario.
I giornalisti giornalisti vengono definiti eroi, salgono sui palchi delle manifestazioni e ritirano premi, perché è quello l’unico cono di luce concesso, una sorta di riconoscimento dal basso , come se fare il proprio mestiere e farlo bene fosse un atto straordinario.
E se un Paese ha bisogno di eroi, di questi eroi, non è un paese che gode di buona salute.
Lo conferma la legge sulle querele bavaglio che langue ormai da tempi immemori, soggetta ai moti ondivaghi e ai balletti dei governanti di turno cha Al di là del colore politico rimbalzano a data da destinarsi una legge fondamentale per la democrazia e la libertà di espressione e informazione.
Perché è proprio lì, dove la democrazia va tenuta viva come il lievito madre negli antichi forni, che quel provvedimento evidentemente non è voluto. Perché scomoda, incomoda e imbarazza i querelatori seriali per eccezione, i politici, e i loro gregari.
E allora è questo il nodo. Ad un mese dalla chiamata alle urne il giornalismo si deve svegliare, non con le parole con cui abbiamo dimestichezza, ma coni fatti.
I giornalisti devono scendere in piazza, precari e non, carichi di coscienza e onore, raccontare dell oscurantismo che ha minato le basi dell’informazione, spiegare di quale politica ha bisogno il Paese, di quale ossigeno la professione.
Perché in Italia sei giornalista per hobby e tuttofare per lavoro, o non mangi.
Perché in Italia la verità sbattuta sulla carta non pesa perché vera ma perché scritta e diffusa, e allora spesso viene imbavagliata.
Non vogliamo le camicie di forza della mala politica e delle solidarietà di facciata.
Abbiamo bisogno di penne cariche di inchiostro e rispetto dell’articolo 21 della Costituzione.
Che non va né cambiata né integrata, tanto è attuale e avanguardista tutt’oggi. Ma va applicata. Va “solo” applicata.
Con coraggio. Coscienza. Sarebbe pure ora.
E allora per noi, per i colleghi che sono morti ammazzati per un ideale di libertà, per il valore sacro del giornalismo, per tutti i lettori i telespettatori i radioascoltatori che credono nelle nostre firme, si fidano e si affidano a noi, per ricordare che esistiamo e siamo in tanti, scendiamo in piazza. Precari e non. Noi, tutti noi insieme, siamo l’Articolo 21.
Fabiana Pacella