Tralasciamo lanciata definizione di eroe, anche se nel caso specifico sarebbe perfetta, e concentriamoci sulla grandezza umana di Giorgio Perlasca, scomparso il 15 agosto del ’92 all’età di ottantadue anni. Comasco di nascita, classe 1910, in gioventù fu un convinto sostenitore del fascismo, al punto che partecipò come volontario sia alla guerra d’Abissinia sia, soprattutto, alla guerra di Spagna, dove si distinse per meriti particolari che gli valsero un sostegno diplomatico a vita da parte del governo spagnolo. E fu proprio grazie a quell’attestato, con tanto di firma del “generalissimo” Franco, che Perlasca poté trasformarsi in ciò che non avrebbe mai pensato di diventare. Va detto che la sua adesione al fascismo si affievolì molto in seguito alla proclamazione delle Leggi razziali e così, trovatosi a Budapest per lavoro, nell’ambito del commercio internazionale di bestiame, dopo l’8 settembre si rifiutò di aderire alla Repubblica di Salò. Solo il sostegno dell’ambasciata spagnola, presso cui cercò e ottenne rifugio, gli consentì di salvarsi dalla persecuzione dei tedeschi.
E qui, anche grazie all’amicizia con l’ambasciatore Ángel Sanz Briz, iniziò la sua attività in favore degli ebrei, arrivando, in seguito all’abbandono di quest’ultimo, contrario al riconoscimento del governo filo-nazista ungherese, a spacciarsi per il console Jorge Perlasca, all’insaputa dello stesso e persino della Spagna, redigendo di suo pugno la nomina a diplomatico con tanto di timbri e carta intestata Grazie alla sua intraprendenza e alla protezione di cui godeva, attraverso un sistema di case protette, l’impegno attivo e incessante dell’ambasciata e arrivando addirittura a impiegare risorse personali, salvò migliaia di ebrei ungheresi dalla deportazione e, dunque, dalla morte nei campi di sterminio, proprio come fecero, al contempo, il diplomatico svedese Raoul Wallenberg e il nunzio apostolico italiano Angelo Rotta. Ha sempre sostenuto, a torto, che chiunque altro, al suo posto, si sarebbe comportato nello stesso modo ma non è così. Perlasca ebbe un coraggio, una forza d’animo, uno spirito battagliero e un’umanità senza eguali, specie se si considera che per oltre quarant’anni non fece quasi cenno della sua impresa. Non cercò riconoscimenti, non volle onorificenze e, probabilmente, si sarebbe portato il segreto nella tomba, se alcune delle persone che aveva salvato tanti anni prima, nell’88, non fossero riuscite a rintracciarlo, a Padova, dove viveva, per andarlo a ringraziare. Fu grazie a loro che abbiamo scoperto l’opera straordinaria di questo italiano di cui andar fieri. Un “impostore”, come di è definito nel suo memoriale, un uomo che ha rischiato l’impossibile e messo in gioco tutto pur di compiere un’azione che riteneva giusta, al di là delle appartenenze politiche.
Giorgio Perlasca è oggi ricordato allo Yad Vashem di Gerusalemme, considerato un “Giusto fra le nazioni” e un albero, nel vialetto dietro al memoriale dedicato ai bambini, è a lui intitolato. Anche nel cortile della sinagoga di Budapest il suo nome compare in una lapide che riporta l’elenco dei Giusti.
Ne ricordiamo la passione civile, l’impegno in favore dei perseguitati, l’umiltà, l’aver compiuto un’azione degna di Schindler senza aver chiesto nulla in cambio e, più che mai, l’aver continuato a condurre una vita del tutto normale, custodendo la sua eccezionalità con geloso riserbo. Trent’anni dopo ne scriviamo in punta di piedi, con ammirazione e rispetto, nella speranza che la sua incredibile storia non venga dimenticata.
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