Si sono tenuti ieri nella chiesa di San Gregorio Magno a Casacanditella (Chieti) i funerali di Franco Rositi, uno dei principali protagonisti della sociologia italiana.
Nato nel 1938, insegnò all’università statale di Milano, cui seguirono i periodi di docenza a Bari (dove divenne ordinario nel 1975), Torino e Pavia. In quest’ultimo ateneo – di cui fu professore emerito- Rositi costruì il progetto dell’Istituto universitario di Studi Superiori, riconosciuto tra le istituzioni speciali come la Scuola Normale di Pisa. Sempre in quel contesto fu ideato l’Osservatorio radiotelevisivo (insignito del premio Saint-Vincent nel 1996), vero e proprio punto di riferimento per chiunque si occupi di monitoraggio radiotelevisivo. Ruoli e virtù professionali si uniscono ad una vasta produzione scientifica di libri e saggi.
Cultura di massa e comportamento collettivo (1968) e Contraddizioni di cultura (1971) furono quasi un breviario introduttivo della rigogliosa pubblicistica di una stagione che cominciava a cogliere il valore dell’industria culturale e del mass media. La bibliografia è lunghissima: da Informazione e complessità sociale (1978), a Mercati di cultura (1982), a La ricerca sull’industria culturale (1992), a Cultura comune, ceti dirigenti, democrazia (2001), a La ragione politica. I discorsi dei leaders politici (2013), a I valori e le regole, all’agile Sociologia (2015) utilissimo per chi volesse addentrarsi nella materia.
Svariati gli impegni editoriali. Diresse nel triennio 1983-1986 la Rassegna italiana di sociologia, partecipò alla fondazione della collana Metodologia delle scienze sociali, della rivista L’indice dei libri e Il lavoro nell’informazione.
Fu consigliere del Piccolo Teatro di Milano e presidente dell’istituto Gemelli-Musatti per la ricerca sulla comunicazione. Sempre attivo nella discussione pubblica, Rositi ha accompagnato con indipendenza ma con appassionata partecipazione le stagioni dell’area progressista: dalla vicinanza giovanile ai gruppi legati a Mounier, all’età dell’Ulivo di Romano Prodi, alla sinistra cui con qualche amarezza guardò fino all’ultimo.
Rositi, dunque, è senz’altro da inserire nella (purtroppo) ristretta schiera di intellettuali capaci di unire saperi e attivismo civile. Poliedrico e curiosissimo discettava di filosofia e di politica, sempre tenendo alla scientificità dei dati e delle statistiche. Fu tra i pionieri dell’attenzione di un’Italia distratta verso le scienze informatiche. Coordinò non per caso il rinomato convegno internazionale promosso dalla fondazione Olivetti (Courmayeur, 1971) su informatica e società, e contribuì a importare con spirito critico e tuttavia aperto la riflessione anglosassone sui media nel loro rapporto con i diversi poteri.
L’argomentazione, però, doveva sempre prevalere sugli slogan ad effetto. L’attenzione alle classi e ai gruppi sociali svantaggiati non si trasformava mai in semplificazioni populiste. E la ricerca della verità era quasi un’ossessione, come si evince da uno dei suoi scritti, dove il vero è ben distinto dal falso e pure dal verosimile. Il giornalismo – diceva- ha l’obbligo della verità: forse quest’ultima non esiste astrattamente, ma esplorarne le strade è un metodo fondamentale. La sociologia era teorizzata come soglia alta della conoscenza, non ridotta a racconto leggero e prevedibile.
Non era un pensatore solo e isolato, bensì parte di un prezioso gruppo di personalità che ha dato impulso allo sguardo moderno verso la complessità. All’incrocio tra fede, studi socialisti o marxiani, una lettura non ideologica del mondo – ancorché salda nei principi- si affermava nel periodo in cui si conobbero le principali riforme del dopoguerra, conferendovi linfa teorica.
Una delle riforme sognate da Rositi non si avverò: quella della Rai. Vi fu dedicato un convegno istruito con studi e confronti accurati nel 2006, accompagnato da un quaderno monografico della rivista Ikon, ulteriore capitolo di un vasto mosaico di interessi. Non ci fu verso: neppure l’approccio più serio riuscì ad intaccare le liturgie pagane dell’ex monopolio.