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Discorsi Pelosi a Taiwan

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Non solo sull’Ucraina. Sono piovuti bombe e missili anche sulla Repubblica di Cina, più nota come Taiwan. Certo non è lo stesso. I missili e le bombe della Russia cadono da oltre 5 mesi sulle truppe (e sulle case) dell’Ucraina causando morti e distruzione. Finora, per fortuna, i missili di Pechino sono caduti solo a largo delle coste di Taiwan, l’isola a meno di 200 chilometri dalla Repubblica Popolare Cinese.

Nancy Pelosi, la presidente della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, è andata a Taipei ed è scoppiato il patatrac. Ha incontrato la presidente di Taiwan Tsai Ing-wen e ha accesso una miccia dalle conseguenze imprevedibili. Ha premesso: «Oggi il mondo deve scegliere tra democrazia e autocrazia». Quindi ha sostenuto: «La determinazione dell’America a preservare la democrazia, qui a Taiwan e in tutto il mondo, rimane ferrea».

Xi Jinping esalta da anni la democrazia «con caratteristiche cinesi». Non ha preso per niente bene la visita della terza carica istituzionale degli Stati Uniti (dopo il presidente americano e quello del Senato). Ha considerato il discorso della presidente della Camera una lesione alla sovranità e all’integrità della Repubblica Popolare Cinese, una interferenza nei suoi affari interni. Ha giudicato la visita di Nancy Pelosi una “grave provocazione”, un tradimento della dichiarazione degli Stati Uniti, fatta nel 1979, sull’esistenza di una “unica Cina”, quella governata dal Partito Comunista Cinese. Il presidente del Dragone ha protestato, ha rotto il dialogo con Washington anche su temi delicati come la difesa e il clima.

Ha ordinato da giovedì 4 agosto delle “manovre militari” in grande stile e a fuoco vero contro Taipei. Si sono mossi gli aerei e le navi militari: sono partiti i missili verso lo spazio marittimo di Taiwan (qualcuno è caduto anche nei pressi del Giappone). Secondo Taipei ci sono tutte le premesse per una invasione dell’isola da parte delle truppe dell’Esercito di Liberazione Nazionale. Del resto anche l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin ha avuto come premessa delle imponenti esercitazioni militari.

È improvvisamente apparso uno scenario da brividi, di guerra tra Pechino, superpotenza nucleare, seconda economia del mondo dopo gli Usa, circa un miliardo e quattrocento milioni di abitanti contro Taipei, una delle “tigri” asiatiche dotata di una industria di alta tecnologia, poco più di venti milioni di persone, grande alleata di Washington nello scacchiere dell’Oceano Pacifico.

Joe Biden, già impegnato in Europa ad aiutare l’Ucraina a respingere l’invasione russa, temeva una reazione pesante da parte di Xi Jinping. Il presidente degli Stati Uniti aveva avuto un colloquio in video conferenza con il presidente cinese ed era consapevole della sua volontà di reagire anche sul piano militare. Xi Jinping aveva scatenato il nazionalismo comunista indicando il peso della «ferma volontà di un miliardo e quattrocento milioni di cinesi» di arrivare alla riunificazione con Taiwan. Le parole erano bellicose: «Chi gioca col fuoco muore tra le fiamme». Biden aveva cercato invano di sconsigliare a Nancy Pelosi il viaggio a Taipei.

L’amministrazione americana ora cerca disperatamente di circoscrivere l’incendio divampato in Estremo Oriente. Antony Blinken ha definito la reazione della Cina «sproporzionata e pericolosa». Il segretario di Stato americano ha assicurato la volontà di dialogo di Washington. Ha garantito: «Gli Stati Uniti non si impegneranno in nessuna azione provocatoria».

Ufficialmente c’è una sola Cina. In realtà ce ne sono due: la Repubblica Popolare Cinese e Taiwan. Il dualismo si creò nel 1949, quando vinse la rivoluzione comunista: Mao Zedong sconfisse Chiang Kai-shek e il leader nazionalista si rifugiò a Taiwan.

Sia Mao sia i successori alla guida del Partito Comunista Cinese proclamarono l’esistenza di una “unica Cina”. Idem fece Chiang Kai-shek. Mao voleva riconquistare “la provincia ribelle”, il leader del Kuomintang si riprometteva di riprendersi tutta l’immensa Cina continentale. L’ambiguità formale crebbe: all’inizio Taiwan, sostenuta dagli Stati Uniti, ottenne il seggio della Cina nel consiglio di sicurezza dell’Onu. Poi il realismo politico americano cambiò tutto. Nel 1972 Richard Nixon, in funzione anti sovietica, aprì al dialogo con Mao Zedong: Washington riconobbe Pechino come unica Cina, diede il disco verde al suo ingresso al vertice delle Nazione Unite al posto di Taipei ma nello stesso tempo mantenne stretti rapporti politici ed economici con Taiwan.

Una delle regole fondamentali della politica internazionale è di mantenere sempre divisi i propri nemici. Invece gli Stati Uniti da decenni stanno facendo esattamente il contrario: la Russia, traumatizzata dal crollo dell’Unione Sovietica, è stata sospinta in un angolo; Vladimir Putin è finito nelle braccia della Cina, la vera avversaria degli Usa nell’egemonia mondiale, firmando il patto per una “alleanza illimitata”. I pericoli sono tanti. Xi Jinping, nonostante questa intesa aveva preso le distanze dall’invasione dell’Ucraina. Finora non aveva fornito a Putin l’aiuto di armamenti per sfondare rapidamente in Ucraina. Ora il presidente cinese potrebbe farlo o, peggio, potrebbe decidere d’invadere Taiwan, la “provincia ribelle”.


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