“Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”: è la frase che comparve l’indomani su un cartello in via Carini, vicino al punto in cui quarant’anni fa, il 3 settembre 1982, la mafia aveva assassinato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Erano le 21,15 di un venerdì di fine estate, e con lui caddero sotto i colpi dei sicari anche la compagna Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo.
Complessa e affascinante, la figura di Dalla Chiesa costituisce l’identikit di un eroe civile. In prima fila nella lotta contro il brigatisti, nella Torino atroce degli anni Settanta, straziata dal piombo, dalle vendette e da un clima politico incandescente, voci maligne hanno sempre sostenuto che sia stato nominato prefetto di Palermo per sbarazzarsene. Qualcuno adombra addirittura che c’entri anche il caso Moro, il Memoriale dello statista democristiano assassinato nel 1978 e le innumerevoli conoscenze di quel militare sui generis in materia. Del resto, Dalla Chiesa era un esempio di rigore, passione civile, impegno e dedizione incessante al bene comune, fin da quando aveva deciso di indossare la divisa e aveva cominciato a battersi per un Paese migliore e una società più giusta. L’aspetto più interessante di questa personalità sorprendente era il suo modo di agire, sempre nell’interesse della collettività, senza chiedere nulla per sé, come si evince anche dalle interviste che negli anni ha rilasciato a grandi giornalisti come Biagi e Bocca. E anche la scelta degli intervistatori la dice lunga sul suo carattere: esempi di umanità e di correttezza, cronisti di razza, in grado di porre sempre le domande giuste al momento opportuno, senza alcun cedimento alla retorica, senza mai risultare inopportuni, senza puntare sul sensazionalismo e senza arrecare alcun danno a indagini delicate e bisognose di cura e massima riservatezza. Memorabile, a tal proposito, il colloquio con Bocca, il 10 agosto nell’82, tre settimane prima di essere assassinato, quando il generale denunciò di essere stato trasferito in una città nel bel mezzo di una devastante guerra di mafia senza avere gli strumenti adeguati per farvi fronte. C’era in quel grido d’allarme e di denuncia lo sgomento dell’uomo, prim’ancora che del militare, al cospetto di uno Stato che non dava l’impressione di volerlo sostenere fino in fondo, per usare un eufemismo: un sospetto atroce che, da quel momento in poi, sarebbe affiorato anche in altre circostanze, prime fra tutte, dieci anni dopo, le tragedie ravvicinate di Falcone e Borsellino.
Dalla Chiesa apparteneva alla stessa categoria di Ambrosoli: personalità significative, uomini d’ordine non disposti a scendere a compromessi inaccettabili, figure specchiate disposte a sacrificare se stesse in nome della difesa delle istituzioni e dei principî essenziali del nostro vivere civile. E se oggi l’Italia è affetta dal morbo dell’anti-politica e della sfiducia collettiva è anche perché le istituzioni in primis non sono state capaci di onorare, con azioni concrete, la memoria dei propri interpreti migliori, alimentando la sensazione diffusa di essere corresponsabili della barbarie o, comunque, in preda al degrado, alla corruzione e a un’inconfessabile collusione con ambienti e personaggi che avrebbero il dovere di tenere alla larga e di combattere.
Lo ricorderà a breve una fiction RAI, diretta da Lucio Pellegrini, in cui a interpretare Dalla Chiesa sarà Sergio Castellitto. Ne è stata rinviata la messa in onda a dopo le elezioni perché la figlia Rita ha accettato la candidatura nelle file di Forza Italia. Non entriamo nel merito della decisione dei vertici di viale Mazzini. Sarebbe bello, tuttavia, se una figura come quella del generale che ha sfidato a viso aperto il terrorismo, la mafia e ogni altra forma di criminalità costituisse un patrimonio comune, senza distinzioni di sorta, senza polemiche strumentali sulle scelte degli eredi e senza accrescere la percezione collettiva che persino la nostra storia migliore possa essere gettata nel calderone delle polemiche contingenti, in un Paese ormai privo di memoria e non più in grado di definire valori comuni in cui tutti si riconoscono, anche quando incalzano le esigenze di divisione dettate dalla campagna elettorale.
(Nella foto il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa)