Tra coloro che oltre a Wilde avevano la battuta pronta e pungente c’era George Bernard Shaw, che una volta definì l’opera lirica come lo spettacolo nel quale qualcuno viene pugnalato «e invece di morire si mette a cantare». Questo è infatti un accadimento tipico del melodramma, dotato di alcuni superbi prototipi.
Appena soffocata nel suo letto dal geloso Otello, Desdemona emette il gemito «Ah!». Diremmo che è deceduta, e invece no: quando Emilia entra nella camera, Desdemona ha ancora il tempo di dirsi uccisa ingiustamente e di morire innocente; e quando Emilia le chiede chi è stato, tenta ancora di scagionare il marito: «Nessuno… io stessa… Al mio signor mi raccomanda… Muoio innocente… Addio…». Per una soffocata sembra davvero tanto, ma non da meno è Otello che, scoperto l’inganno di Jago, a sua volta si pugnala, rivolge un ultimo bacio alla sposa uccisa e trova anche il tempo d’intavolare una più lunga orazione. Quando infatti estrae furtivo dalle vesti il pugnale e si ferisce urlando «Ho un’arma ancor!» non è finita. Cassio, Lodovico e Montano hanno il tempo di gridargli che è uno sciagurato e che si fermi, e Otello ha ancora il tempo di intonare le sue famose ultime parole, nelle quali ha coscienza di giacere nell’ombra, prima di spirare alfine: «Pria d’ucciderti… sposa… ti baciai. Or morendo… nell’ombra in cui mi giaccio… Un bacio… un bacio ancora… ah!…un altro bacio…».
Sembra che Verdi, componendo Otello attorno al 1885, abbia raggiunto per un’agonia un buon grado di lunghezza. Ma vent’anni prima Wagner aveva fatto di meglio nel Tristano e Isotta. Nel delirio di vedere Isotta, Tristano si strappa le bende e va incontro all’amata spirando nelle sue braccia ed emettendo anch’egli un «Ah!», dopo il quale correttamente spira. Poco dopo Isotta, per parte sua, muore sul cadavere di Tristano intonando un lunghissimo canto di morte nel quale si unisce piano piano alle onde, ai tuoni e al respirante universo, perdendo coscienza in un afflato di «suprema voluttà», ultime parole dopo le quali si accascia sul corpo di Tristano: più trasfigurazione che morte (e d’altra parte, per quale ragione Isotta dovrebbe morire se non per il fatto che Tristano l’ha preceduta e, ora, non se ne può più fare a meno?).
Ancor prima, Gounod aveva fatto qualcosa di simile in Romeo e Giulietta, dove per il famoso qui pro quo di una Giulietta apparentemente morta, Romeo si avvelena delirando nell’agonia ed ella, risvegliatasi dal deliquio, s’uccide con un pugnale che nascondeva tra le vesti nuziali: già praticamente morti, i due sventurati implorano il perdono divino, e si spengono serenamente abbracciati.
In tema di morti che tardano a morire e ciarlano con singolare loquacità, la lirica offre tanto altro, con un elemento comune: che la forza che spinge a far parlare ben oltre il limite concesso a una vita che si spegne è l’amore. Come a dire: quante parole fa spendere l’amore, in vita e in morte…