Non serve guardare molto lontano per vedere i rischi delle derive illiberali. Non serve guardare alla Turchia _ percepita da molti come “altro da noi” per via della religione, e invece vicinissima – dove 23 giornalisti sono ancora in carcere per reati d’opinione. Non serve guardare alla Bielorussia _ percepita come una riserva di Putin e dunque facente parte di un’Europa cui non apparterremo mai, e invece a noi prossima _ dove sono in galera 28 reporter, o ancora alla Russia medesima, dove nelle carceri sono chiusi 24 giornalisti. Per capire i pericoli concreti all’orizzonte basta anche restare dentro la casa comune, l’Unione europea, e vedere in che situazione si trova la libertà di espressione in Ungheria, o come stanno i giornalisti in Polonia (uno è anche in carcere): sarà subito evidente che la democrazia e la libertà di espressione (un binomio inscindibile) non sono commodities a disposizione di tutti, per cui si apre un rubinetto e via. Sono beni preziosi in pericolo anche dentro la Ue. Il Governo di estrema destra della Polonia ha varato atti legislativi con cui punta a impedire che editori stranieri possano possedere mezzi di comunicazione polacchi. Il risultato è il controllo ormai quasi totale dei media da parte dello Stato. In Ungheria, il bavaglio alla libera informazione continua da anni, con i giornalisti indipendenti spiati e minacciati. Anche la Slovenia, con il precedente governo, aveva rischiato una deriva simile, specie durante la pandemia, usata per limitare, con la scusa dell’emergenza, la libertà di stampa.
In Settembre, in Italia si voterà per rinnovare le Camere. Ed ecco la prima domanda che i giornalisti e i loro rappresentanti dovranno porre al nuovo Governo che ne scaturirà: dove vi collocate voi? A quale modello guardate? Alle democrazie liberali nordiche, prime in tutte le classifiche internazionali per la libertà di espressione, come Norvegia, Danimarca e Svezia (Rsf index 2022) , alla Germania, 16esima pur con tutte le sue magagne, alla Francia, 26esima ma pur sempre migliore del nostro 58esimo posto , oppure ai Paesi sovranisti e autoritari dell’Est Europa? La risposta non è scontata. Per avvicinarsi ai modelli liberali nordici, un Governo degno di questo nome dovrebbe risolvere finalmente una serie di questioni che si trascinano da anni e anni. Al futuro parlamento e governo, dunque, ancora, noi dobbiamo chiedere: siete disposti a risolvere il conflitto di interessi che caratterizza vergognosamente l’Italia da decenni? Siete pronti a prendere in mano la questione devastante delle querele temerarie? Volete garantire ai cittadini di questo paese un servizio pubblico televisivo che punti sulla qualità e sull’indipendenza dell’informazione senza considerarlo di vostra proprietà? Siete disposti a rivedere l’autorità e le regole dell’Antitrust che non funzionano più, in modo da garantire il pluralismo dell’informazione invece delle fusioni che lo uccidono?
Un Governo che guardi all’Europa liberale e democratica non può prescindere da tutto questo. Ma c’è di più. La politica deve prendere atto finalmente della crisi economica che ha colpito il sistema dell’informazione e che, una volta di più, ne mette a rischio la tenuta e la stessa esistenza. Invece di gridare, come facevano alcuni partiti nella scorsa campagna elettorale, a un auspicato e auspicabile , dal loro punto di vista, “taglio dei contributi pubblici all’editoria” peraltro mal gestiti e insufficienti, il nuovo Parlamento dovrebbe preoccuparsi di sostenere in modi diversi e innovativi un settore allo stremo, prendendo coscienza del fatto che moltissime testate sono morte per motivi economici e che i giornalisti sono una categoria fatta sempre di più da precari sottopagati e privi di garanzie. Il mondo dei periodici è praticamente sparito, i quotidiani hanno redazioni sempre più vuote e puntano, più che sull’informazione, sull’organizzazione di eventi e convegni a pagamento. Le radio hanno subito una forte operazione di concentrazione e scomparsa del pluralismo. Sul web dilagano siti fatti da persone sfruttate e senza garanzie e nessuno si cura di certificarne in qualche modo l’attendibilità. Quanto agli editori, La Federazione italiana editori giornali _ la Fieg _ peraltro sempre meno rappresentativa, chiede da anni ai Governi solo di finanziare i tagli e non domanda altro che espellere i giornalisti contrattualizzati per sostituirli con un esercito di precari. Più poveri e di conseguenza meno indipendenti.
Dobbiamo chiedere ai politici, al nuovo Parlamento e al nuovo Governo, se si riconoscono veramente nei valori della Costituzione, di non cedere alla tentazione di favorire un sistema informativo comodo e asservito, ma di dimostrare che ne preferiscono uno forte, magari scomodo, ma che assicuri ai cittadini una completa democrazia.