Dal 9 al 12 luglio si è svolta la marcia per la pace organizzata dal Movimento Europeo di Azione Nonviolenta (Mean) verso la capitale ucraina. Hanno partecipato una cinquantina di italiani con storie e estrazioni disparate: tra questi Paolo Bergamaschi, già funzionario della Commissione degli Esteri del Parlamento Europeo. Il suo reportage
“Fermatevi, state uccidendo i civili, non siete liberatori”. Non usa mezze parole Kazbek Tedeev illustrando di fronte alla platea che affolla l’austera Sala delle Colonne del municipio di Kyiv il suo video, divenuto virale, postato in rete poche settimane prima. Il suo caso aveva suscitato clamore sui media internazionali.
Kazbek era un cittadino russo che nel 2009 si è trasferito in Crimea lavorando come procuratore. Nel 2014, dopo l’occupazione della penisola da parte dei soldati di Mosca, ha trovato rifugio nella capitale ucraina dove continua fino ad oggi a esercitare la sua professione. Davanti all’ennesimo bombardamento russo di una zona residenziale, che ha stroncato la vita di civili innocenti non ce la fa più a rimanere zitto. Ha preso così il telefonino, filmando di getto un appello accorato rivolto ai suoi ex compatrioti con alle spalle la prova dell’ennesimo crimine di guerra.
Lui, di orgine caucasica, gode ancora di grande fama in Ossezia, la terra da cui proviene. Proprio in Ossezia e nelle altre entità periferiche della Federazione Russa è in corso una campagna sotterranea di arruolamento per rimpolpare un esercito – quello russo – che sta subendo ingenti perdite. Ma dato che in Russia è vietato pronunciare la parola “guerra”, chi lo fa rischia quindici anni di reclusione, le autorità, che continuano a parlare di operazione militare speciale, non possono ricorrere ufficialmente alla precettazione limitandosi così ad adescare le potenziali reclute con l’offerta di contratti economicamente vantaggiosi nelle regioni più povere del Paese.
“Qui c’è la libertà di espressione, in Russia no; vi stanno facendo il lavaggio del cervello, lasciateci in pace”, non poteva essere più esplicito Tedeev. Si calcola che siano stati quasi 400 gli osseti che dopo avere visionato il suo messaggio hanno rinunciato all’arruolamento. Se solo i media russi avessero fornito un’informazione corretta, al posto di quella di regime imposta da anni, forse la crisi ucraina avrebbe preso una piega diversa.
La Marcia per la Pace
Ci sono momenti in cui occorrono atti controcorrente, folli all’apparenza, che sparigliano le carte dei giocatori sul tavolo aprendo nuovi scenari. E’ quello che ha pensato di fare il Movimento Europeo di Azione Nonviolenta (Mean) organizzando a Kyiv, nel pieno del conflitto, una marcia per la pace che, per ovvie ragioni di sicurezza, ha dovuto svolgersi al chiuso.
Sono 54 gli italiani che hanno partecipato con storie e estrazioni disparate. C’è il falegname, la docente universitaria, il tecnico informatico, il chirurgo, il frate, il sindacalista, il sacerdote, il giornalista, la sociologa, l’europarlamentare, il pensionato, tutti impegnati nell’associazionismo e nel volontariato, tutti motivati a scuotere le istituzioni europee attanagliate da un invasivo torpore diplomatico.
Alcuni si sono sobbarcati tredici ore di viaggio in pullman da Cracovia il cui aeroporto, da quando è stato chiuso lo spazio aereo ucraino, si è trasformato nel punto di transito obbligato per tutti quelli che vogliono arrivare nell’ex repubblica sovietica. Altri hanno addirittura raggiunto Medyka – la località polacca dove si attraversa la frontiera – in corriera da Milano, accumulando stoicamente l’ultimo segmento ad un altro giorno di viaggio. Poi, una volta ricongiunti, i partecipanti hanno attraversato a piedi il check point doganale salendo sull’autobus che attendeva sul lato ucraino. Su entrambi i versanti della barriera la fila dei tir in attesa si allungava per chilometri.
A Medyka il villaggio umanitario allestito a fine febbraio per assistere le centinaia di migliaia di rifugiati è quasi deserto. L’unico gazebo sul lato ucraino, invece, è quello che accoglie e assiste per l’arruolamento i foreign fighters. Non fosse per i frequenti check point la strada per Kyiv sarebbe tutto sommato scorrevole, affiancata da sterminati campi di frumento, che qui matura con un paio di settimane di ritardo rispetto all’Italia, interrotti dalle luccicanti e variopinte cupole delle chiese ortodosse che fregiano gli anonimi villaggi di passaggio. Gli aerei non volano, ma le cicogne sì, quando si alzano e planano un po’ goffe sugli ampi nidi fatti di rami intrecciati posti sulla sommità dei pali della luce.
La manifestazione in municipio era stata preceduta la sera stessa dell’arrivo nella capitale da un collegamento via Zoom con una quindicina di affollate piazze italiane, da Napoli a Venezia, da Milano a Roma, dove amministratori e semplici cittadini hanno fatto pervenire un robusto messaggio di pace ai rappresentanti della società civile ucraina che hanno condiviso il progetto. “Siamo tutti ucraini, siamo tutti europei” era lo slogan che campeggiava nella Sala delle Colonne. Non può esserci una vera pace senza una forte spinta dal basso, è la convinzione delle 35 Ong italiane che hanno sostenuto l’iniziativa.
Non poteva mancare l’intervento del sindaco, l’ex campione dei pesi massimi Vitalyi Klitschko, che ha accolto gli ospiti con il discorso di apertura. “Il vostro è stato un atto coraggioso perché siete venuti a Kyiv pur sapendo che non potevamo garantirvi le condizioni di sicurezza”, esordisce ricordando il suo passato di lottatore che prosegue oggi sotto altre vesti. “Sbaglia chi pensa che questa sia solo una guerra fra Russia e Ucraina, tutta l’Europa è coinvolta e rischia di essere destabilizzata”, continua, sottolineando come il suo paese faccia parte della famiglia europea, abbia scelto gli standard europei e stia pagando per questa scelta.
Anche il nunzio apostolico Visvaldas Kulbokas, che prende la parola subito dopo, auspica una Europa unita e solidale di cui anche l’Ucraina è parte, richiamando l’importanza di impegnarsi per costruire la pace. “Le parole contro la guerra non bastano, ci vogliono azioni concrete”, osserva, “l’iniziativa del Mean va nella giusta direzione e ha tutto il mio apprezzamento”. “C’è chi guarda alla guerra con distacco come se fosse un gioco”, rimarca, “ma quando guardiamo alla guerra con gli occhi e il cuore delle vittime capiamo che si tratta di un crimine contro l’umanità”. L’arcivescovo, però, sembra quasi rassegnato quando conclude che se “l’azione nonviolenta fallisce, perché non è abbastanza tenace e creativa, al popolo aggredito non resta altra soluzione se non quella di chiedere aiuto di ogni tipo, economico, politico e militare”.
Tocca poi a Ihor Torskyi, presidente di Azione per l’Ucraina , l’Ong locale partner del Mean, ricordare a tutti come sia nel 1994, con la firma del Memorandum di Budapest che sanciva i disarmo atomico unilaterale dell’Ucraina in cambio di garanzie internazionali sulla sicurezza del Paese, che nel 2014, con la decisione di Kyiv di rinunciare a qualsiasi reazione militare all’occupazione e annessione russa della Crimea, l’Ucraina abbia optato e praticato la scelta della nonviolenza trovandosi, però, abbandonata alla mercé degli spietati disegni del Cremlino. “Quando un bugiardo ti offre garanzie”, sono le sue crude parole, “si sta preparando ad ammazzarti”. “I mezzi nonviolenti sono efficaci in fase di prevenzione”, è la sua opinione, “non quando il conflitto infuria”. Parole dure, parole amare, scandite nel pieno di una tragedia umana che si fatica a comprendere se non la vivi in prima persona. Il drappello di pacifisti italiani, però, è arrivato in Ucraina anche per questo, per ascoltare e capire, portare solidarietà e condividere l’esperienza di un popolo che da quasi cinque mesi vive sotto l’incubo di bombardamenti martellanti e di missili di crociera che squarciano le notti delle città come una lotteria impazzita.
Alle ventitré a Kyiv scatta il coprifuoco fino alle cinque del giorno successivo. Nonostante la breve permanenza, anche noi impariamo a conoscere il suono delle sirene dell’allarme anti-aereo con il percorso per arrivare al rifugio.
All’esterno del municipio che si affaccia su corso Kreshyatik, l’arteria che taglia il centro della capitale, il traffico è fiacco e pochi sono i passanti che transitano sui marciapiedi. La città prova a fare di necessità virtù, trasformando la precarietà in routine. Ma sono decine i cavalli di frisia parcheggiati ai lati di ogni incrocio pronti ad essere utilizzati in caso di attacco e tutti i monumenti sono sepolti sotto montagne di sacchi di sabbia a protezione dalle bombe di chi vuole distruggere l’identità culturale del Paese.
Piazza dell’Indipendenza (Majdan) è vuota. Per me un tuffo al cuore. Tutto cominciò qui, con gli studenti che invocavano a squarciagola “Europe, Europe” nel novembre del 2013. Nessuno avrebbe pensato allora che la storia europea del nuovo secolo avrebbe ricalcato quella tragica del secolo precedente. Ci spostiamo nella piazzetta antistante la chiesa di Sant’Andrea, uno dei gioielli dell’architettura barocca della capitale. Piove a tratti, mentre scende l’oscurità. Un anziano signore di passaggio si aggiunge al coro di “Oy u luzi chervona kalina”, “Oh il rosso viburno nel campo”, antico canto patriottico che Tetyana Shyshnyak, la soprano ucraina che fa parte del gruppo, ci ha insegnato durante il viaggio.
Il ghiaccio è rotto e le corde vocali cominciano a vibrare trascinandoci alla fine in una imperiosa versione di “Bella ciao” che rimbalza sul selciato risuonando tra i vicoli deserti. Canzone di resistenza per un paese che sta resistendo da mesi all’aggressione di uno degli eserciti più potenti e, forse, il più spietato del pianeta. Torna alla mente la leziosa polemica tutta italiana di chi a inizio conflitto rifiutava con molta spocchia e troppa ideologia ogni analogia fra la resistenza partigiana e quella del popolo ucraino. Quando la guerra finirà ci sarà il tempo per ritornare in modo critico sugli errori commessi. Intanto non smettiamo di batterci perché possa davvero finire presto. Anche se costruire la pace sarà ancora più complicato.
P.S.: Il progetto Mean nasce grazie al vulcanico contributo, fra gli altri, di Angelo Moretti, Marianella Sclavi, Marco Bentivogli e Riccardo Bonacina. Senza di loro non avrei avuto l’opportunità di ritornare a Kyiv che rappresenta una parte consistente della mia storia professionale e del mio bagaglio affettivo.