C’è sempre qualcosa da dire su padre Paolo Dall’Oglio nell’anniversario del suo sequestro? O c’è solo da ripetere che nulla sappiamo e nulla si cerca di sapere su di lui? Si potrebbe cercare di capire qualcosa di più? A chi si potrebbe chiedere? Andrebbero sentiti i jihadisti, magari di area Isis, che ancora girano tra fatiscenti penitenziari nell’ovest siriano? E’ di lì che potrebbe emergere quel filo di luce per dare quiete alla nostra necessità di sapere? Forse. Ma non penso che una mano assassina abbia la “verità” sul suo destino. Se emergesse un signor qualcuno che dicesse oggi “l’ho ucciso io”, tutta una serie di incubi, di timori, di speranze si placherebbero dentro di noi. La svolta, in questo caso, sarebbe quella più importante per migliaia di famiglie siriane ancora avvolte in questa tragedia senza risposta, da anni: trovare, vedere, seppellire quel corpo, per riposare in pace e trovare un modo altro per andare avanti. Ma resterebbe comunque tanto da fare; neanche quella mano assassina potrebbe chiarire, con ogni probabilità. Resterebbe probabilmente la domanda cruciale: perché è andato lì? Perché disse che comunque, indiscutibilmente, sarebbe andato? Che Paolo sapesse che tutti possiamo sbagliare la nostra vita e anche la nostra morte, rimanendo magari come dei sopravvissuti a noi stessi, alla nostra “missione”, lo ha scritto lui: “non voglio vivere una vita che sia altro da un dono radicale, a morte, a vita”. Ma perché questa scelta, quel giorno, andando cocciuto, più volte a cercare di essere ammesso nel comando dell’Isis a Raqqa?
Quella sua pagina che ho appena citato prosegue così: “Ho una fede incrollabile, perché radicata in un futuro di decisioni e non di previsioni, nel fatto che ebrei, cristiani e musulmani ci ameremo e riconosceremo gli uni gli altri. Ho una fede incrollabile nel fatto che Gerusalemme sarà un giorno la tenda benedetta della nostra fraternità in Abramo per la benedizione del mondo. Per quanto orribile sia questa disgrazia siriana, ha una fede intatta nel fatto questo paese, questa terra, questo popolo e anche i combattenti musulmani venuti dall’estero, perfino gli islamisti di al-Qaida che sono qui, noi tutti insieme insieme faremo un’esperienza di conversione a Dio, il Misericordioso, il Clemente. E questo segnerà una svolta nella storia dell’islam e del suo rapporto con le altre comunità”. Il testo prosegue fino alla luce: “Di generazione in generazione, il nome Siria sarà sarà sinonimo di risurrezione”. Perché cito proprio queste parole? Da cosa doveva risorgere la sua Siria? Questa è una bella domanda. C’era già morte e distruzione, in termini indicibili. Offese indescrivibile, rabbia, disperazione. E oggi?
Oggi la Siria è un set cinematografico, affittato dal suo signore delle tenebre, Bashar al Assad, per girare un film cinese su un’operazione di salvataggio di cinesi e non solo portati via dallo Yemen in fiamme. Questo set non ha bisogno di operai, di messe in scena, è tutto naturale. Basta una favela distrutta alle porte di Damasco nel 2018 e tenuta scrupolosamente così, intatta nella sua distruzione. Senza anima viva. Tutti morti o deportati. E’ il luogo perfetto per quelle riprese e il regime, finalmente attento anche alla cultura oltre che alla rapina, lo ha affittato a un prezzo introvabile sul mercato mondiale. E le riprese sono cominciate, alla benedicente presenza dell’ambasciatore cinese. I fondi poi sono arabi, il film è finanziato dal fraterno governo degli Emirati Arabi Uniti. Si intitola “Operation Home”, e porterà sui grandi schermi le gesta di chi ha salvato tanto persone, riportandole a casa. Non è andata così per gli abitanti di quella miserrima favela damascena, Hajar al Aswad, un cumulo di palazzacci ammassati anni nella sabbia per dare eroico riconoscimento ai siriani del Golan, nell’attesa che il loro nobile esercito li riportasse a casa. Un’ attesa da spendere tra topi e scarafaggi, miseria e abbandono. Ma che fa, è solo un’attesa. Prima poi il governo inflessibile degli Assad li avrebbe riportati nel patrio Golan, vittorioso.
Quel nobile, premuroso pensiero del governo siriano, nazionalista e nemico degli oppressori, dei colonialisti, si è poi trasformato in un nobile cannoneggiamento e poi bombardamento aereo quando quei siriani hanno preteso dignità. Che ingratitudine… Protestare chi gli aveva regalato quell’Eden. Per molti quel giorno, quando sono insorti contro Damasco nel 2011, è cominciata una nuova deportazione. Non più in Siria, ma nel mondo. Lo stesso destino ha riguardato altri siriani, tantissimi, nella Valle dell’Oronte, non distante da lì. Anche loro deportati dal fraterno regime degli antagonisti, i nemici dei colonialisti.
Come poteva Paolo Dall’Oglio scrivere in quei mesi della sua fede incrollabile nel fatto che “ebrei, cristiani e musulmani ci ameremo e riconosceremo gli uni gli altri?” Poteva perché non era un uomo rassegnato, come noi, che abbiamo trattato quei deportati siriani, nel 2015, con la stessa moneta del loro tiranno Bashar al-Assad. Solo la consapevolezza di aver fatto la stessa identica scelta di Assad ci può portare a capire quella opposta, quella che fece Paolo.
Siamo consapevoli che noi e il colpevole di crimini contro l’umanità abbiamo fatto la stessa scelta quando i siriani da lui deportati si sono presentati al nostro uscio di casa nel 2015? Le scelte non sono mai neutre. Se non ne siamo consapevoli fermiamoci qui. Ma se ne siamo consapevoli, e io lo sono, possiamo proseguire.
Paolo nel 2012, quando fu espulso dalla Siria, stabilì rapporti seri, documentati, con i curdi. Il suo nuovo servizio era lì, in un monastero nel Kurdistan iracheno. Racconta che furono proprio loro, i curdi iracheni, ad aiutarlo a entrare in Siria, quando vi tornò per la prima volta, clandestinamente. Crearono anche i contatti che lo avrebbero condotto attraverso la Siria. Racconta anche di come in una circostanza i guerriglieri del PKK uccisero altri curdi, di altri gruppi, non di orientamento maoista come loro.
Quando tornò, molti mesi dopo, nel Kurdistan iracheno, mi disse al telefono che l’esplosione del conflitto tra Isisi e curdi avrebbe cambiato tutto, avrebbe chiamato in causa altri attori: non mi specificò se si riferiva a turchi e russi, ma è molto probabile. Aveva dunque visto il genocidio degli yazidi, curdi di culto preislamico, l’espulsione dei cristiani dalle loro case di Mosul? Non lo so, ma so che un amico di Paolo sostiene che in quei giorni a Raqqa, mentre insisteva per essere ricevuto nel comando dell’Isis, lui gli avrebbe rivelato in gran segreto che portava una lettera dei vertici del Kurdistan iracheno per i capi dell’Isis. Sapendo l’enormità della posta avrà sentito di doverci provare… E io mi chiedo perché nessuno abbia il coraggio, o l’onestà, di dire se questa sia stata o no la missione di Paolo. Cosa si poteva proporre in quella lettera non lo voglio neanche immaginare. Non mi interessa anche se non credo difficile farsi un’idea. Ma so che una cosa del genere potrebbe essere possibile. Sussiste ovviamente anche lo scenario che Paolo non avesse quella lettera. Ma se non l’aveva, perché rapirlo? Davvero si sequestra un monaco per poi lasciarlo uccidere per errore da una giovane recluta, come ci vogliono far credere?
Io non so se quella lettera sia mai esistita, come potrei. Ma il mistero di Paolo Dall’Oglio è il mistero del motivo del suo sequestro, più che quello del suo esito. Davvero c’era l’ipotesi di un punto d’armistizio per così dire? E a chi dava fastidio? Questa è la dimensione dei problemi in cui porsi per capire il mistero Dall’Oglio, che è poi il mistero di altre migliaia e migliaia di vite umane spezzate di colpo, dalla violenza o dalla persecuzione. E sul cui destino nulla si sa. Questo mistero sta nei motivi dell’accaduto, più che nell’esito che infatti rimane anch’esso inconfessabile.