Quante Italie ha visto Eugenio Scalfari, grande testimone della seconda metà del novecento e dell’inizio del nuovo millennio? Si va dalla fine del fascismo, agli anni della liberazione, della guerra fredda e del monopolio democristiano. Si incontra poi una democrazia italiana che soffre minacciata da trame golpiste, stragismo e terrorismo. Figura atipica di intellettuale, ma anche di direttore manager, le sue creature sono l’Espresso e soprattutto Repubblica. Quest’ultima avventura ha incrociato la storia della politica italiana, della sinistra, ma anche degli scontri di potere vero, basti ricordare l’epica contesa per il controllo della Mondadori con la Fininvest di Berlusconi. Universalmente rispettato per la sua statura, Scalfari ha dedicato gli ultimi anni della vita alla riflessione esistenziale, alla scrittura, a incontri di altissimo livello, in primis quello con papa Francesco. Il suo quotidiano ha continuato a celebrarlo come il Fondatore dando alla sua immagine una sorta di aura mitica, peraltro comprensibile. Intanto, nel 2020, per il giornale l’ultima svolta: il passaggio di Repubblica alla Exor, finanziaria olandese di proprietà della famiglia Agnelli, legata a quella galassia di interessi che una volta si chiamava Fiat.
Detto questo, oltre la dimensione retorica, la vera domanda riguarda proprio la creatura: quanto è cambiata in 46 anni Repubblica? Partiamo dai numeri: nella seconda metà degli anni ottanta il giornale riuscì a superare nelle edicole le 700mila copie vendute, oggi si attesta sulle 140mila (abbonamenti e copie digitali comprese). E’ l’effetto dello tzunami che ha sconvolto l’informazione ovunque. A quel tempo non c’erano Internet e i social. Oggi il brand Repubblica sul Web è comunque riuscito a collocarsi nelle posizioni di testa. Sicuramente c’è una generazione di italiani che il quotidiano di carta non l’ha mai visto ma va sul sito a cercare le notizie del giorno.
Ma il nodo ovviamente non sta nei numeri, è anche politico, legato ai contenuti. Le trasformazioni sono state profonde, radicali, anche se tracce del passato restano. La nuova proprietà il 23 di aprile del 2020 ha allontanato dalla direzione Carlo Verdelli, proprio lo stesso giorno in cui gli veniva assegnata la scorta per minacce ricevute dall’estrema destra. Delle firme storiche qualcuna è rimasta, altri hanno preferito dimettersi. Nei giornali accade: certo l’integrazione con la Exor e le sue “esigenze comunicative” promozionali è apparsa da allora sempre più marcata. Da “giornale partito” Repubblica è diventato altro, un brand editoriale di un gruppo industriale che influenza la vita pubblica italiana. Gli schematismi però non rendono mai la complessità dei problemi. Mi ha molto colpito il titolo del pezzo firmato dall’attuale direttore Maurizio Molinari nello speciale Web curato dalla testata in ricordo del Fondatore “Eugenio Scalfari. Il suo giornale nato per guidare le Riforme”. Una considerazione che al tempo in cui Scalfari l’aveva formulata poteva avere un segno progressista. Ma cosa sono oggi le Riforme? Negli ultimi decenni (pensiamo alla Grecia) la parola è stata completamente svuotata di senso. E se diventano controriforme? E poi c’è quel verbo guidare. Scalfari aveva sicuramente una autorevolezza culturale,politica, economica che oggi gli opinionisti che affollano editoriali e talk tv proprio si sognano. Non solo, come interlocutori del suo giornale aveva i partiti di massa, una classe dirigente figlia di una selezione. Oggi è cambiato tutto: un’informazione degna di questo nome dà notizie, fa battaglie civili, prende posizione (un esempio? La questione climatica e gli interessi dell’industria), ma non guida il popolo o il ceto politico. Quello può interessare i think tank, i gruppi di pressione, le lobby. Tutta un’altra dimensione rispetto a un giornalismo libero, accurato, indipendente, al servizio della comunità.