Confesso il mio sconcerto. Apro i giornali e il tema politico maggiormente trattato in questi giorni è quello della composizione dei collegi elettorali. Come se da un’attenta composizione dell’architettura tecnica delle votazioni deriverà il risultato. E i cittadini? E gli elettori? Possibile che non si percorra una strada che li convinca a non disertare più le urne come è accaduto nei due appuntamenti più importanti del 2022? Oppure si ragiona soltanto su come far rendere al massimo i pochi voti che si otterranno? Ma davvero la democrazia può essere solo questo?
Il 25 settembre non ci porrà di fronte ad una qualunque opzione. E cerco di spiegarmi. Il referendum sulla giustizia tenutosi nei mesi scorsi, tanto voluto dalla destra, ha raccolto poco più del 20 per cento dei consensi. E non sappiamo neppure quanti ‘no’ ci fossero nelle urne. Alle amministrative, tra primo turno e ballottaggio, è stata varcata di poco la soglia del 50%, con risultati che sono dipesi dalla caratura dei candidati. Il cittadino convinto ha voluto scegliere. Tanti altri, insoddisfatti o incerti, sono rimasti a casa. Può accadere la stessa cosa il 25 settembre? Non può, non deve accadere. Perché? Perché in gioco non c’è la faccia più o meno gradita di un leader o di un portaborse, ma l’assetto della democrazia italiana.
Chi crede fermamente nella Costituzione nata dalla lotta al nazifascismo non può non rendersi conto che il Paese rischia di finire governato da chi ha ancora nel simbolo elettorale la fiamma del MSI, da chi ha come squadracce di riserva Forza Nuova e Casa Pound – protagoniste dell’ignobile assalto alla sede della CGIL a Roma e di tanti altri pestaggi e aggressioni -, da chi propone la stessa formula di governo che nel 2001 al G8 di Genova arrivò ad ordinare e coprire la carneficina della scuola Diaz, successiva all’assassinio di Carlo Giuliani, da chi ha come principali alleati europei l’ungherese Orban e Marine Le Pen a Parigi. Ma si può immaginare Silvio Berlusconi che diventa seconda carica dello Stato, il beneficiario del lettone di Putin, delle Olgettine, l’imbonitore che continua a promettere mari e monti come i mille euro mensili a tutti i pensionati? O chi, come Salvini – che tanto parla di lavoro – il quale sa solo promettere l’ulteriore militarizzazione del Paese con le diecimila assunzioni nelle Forze dell’Ordine o la caccia strada per strada a quelli che si ostina a chiamare ‘clandestini’ ma che non sono altro che profughi?
Queste sono solo alcune delle forti motivazioni che devono indurre i tanti elettori delusi da quanto fatto o non fatto dai partiti di sinistra a non disertare le urne, a utilizzare il proprio voto per bloccare l’ondata reazionaria che sta investendo il Paese.
Ma non ci sono solo motivi ideali. Il centrodestra – che dati gli attuali sondaggi dovrebbe piuttosto chiamarsi destra/destra/centro – ha rinnegato la cosiddetta ‘agenda Draghi’, mandando a casa il Presidente del Consiglio, e respinge con sdegno l’ ‘agenda sociale’, che dovrebbe servire ad aiutare i più bisognosi, dal salario minimo al reddito di cittadinanza. In compenso, come sempre, dietro l’altisonante nome di ‘pace fiscale’ vuole ancora una volta tutelare i ricchi, principali sostenitori della sua campagna elettorale.
Quindi, non soltanto lotta ideologica – che pure in questo momento è irrinunciabile, come ai tempi del governo Tambroni – ma il rifiuto di una politica socio-economica volta a tutelare le classi abbienti e di una politica internazionale che ci isolerebbe in Europa, che porterebbe questi signori a riabbracciare Putin, che farebbe rinnegare a Salvini tutte le manfrine mostrate nell’accoglienza ai profughi ucraini, che spingerebbe alla costruzione di un’alleanza reazionaria con le altre destre continentali. Esagerazioni? Dare ascolto, per conferma, a chi certo di sinistra non è: Brunetta, Gelmini, Carfagna.