BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Miracoli visivi…televisivi

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Il tip tap della memoria perduta.

“Ginger e Fred”, di Federico Fellini, Italia, 1986.

Con Marcello Mastroianni, Giulietta Masina, Franco Fabrizi.

Primo titolo della trilogia della contemporaneità di Federico Fellini, e con gli altri due, “Federico Fellini-Intervista”, del 1987, e “La voce della Luna”, 1990, atto d’accusa al mondo spietato e devastante della Tv commerciale, allora in grande espansione nel nostro paese, il film del grande Federico si presenta allo spettatore come un funerale in allegria, un’allegria crassa, malsana, finale. I due protagonisti del film e dello spettacolo Tv (geniale l’accostamento formale e contenutistico del genio riminese), Pippo (un “decadente” e spelacchiato Marcello Mastroianni) e Amelia (una sempre più “innocente” Giulietta Masina), sono due anziani ballerini di tip tap, celebri nell’era dell’avanspettacolo, testimoni di un mondo oramai scomparso, in grado di essere rappresentato soltanto come parodia di se stesso. All’interno dello stesso programma Tv, con loro sono inseriti in scaletta anche i sosia di grandi personaggi della Storia e dell’Arte, come Marcel Proust, ridicolizzati come in una barzelletta da osteria. Dunque, la televisione è per Fellini insieme causa ed effetto di un mondo votato all’autodistruzione in cui ciò che conta è vendere merce attraverso lo sberleffo della “realtà”, derisa e vilipesa in nome di un eterno presente da consumare (per citare il grande scrittore Vincenzo Consolo). La Milano da bere in cui approdano gli antichi Ginger e Fred è una città spettrale, invasa da enormi cartelloni pubblicitari e assediata dal nulla. I due tentano di fuggire durante lo spettacolo, approfittando di un momentaneo black-out, ma non ci riescono, le mille luci dell’effimero non le ferma più nessuno. E la sfavillante scenografia, che li vede danzare al ritmo di un valzer diventato tragica realtà, ha la terribile e metaforica sembianza di una gabbia, dalla quale anche noi spettatori, insieme a Pippo ed Amelia, non riusciremo più a fuggire.

Ai confini del postmondo.

“Osterman Weekend”, di Sam Peckinpah, Usa, 1983.

Con Burt Lancaster, Rutger Hauer, John Hurt, Dennis Hopper.

Ultima opera del grande antihollywoodiano Sam Peckinpah, “Osterman Weekend” è la parabola dell’indicibile, l’incubo divenuto realtà, il cinema che si rilegge e si scruta, fino a fondersi con la pura documentazione, a cui cerca di dare un senso attraverso la finzione. Il film, tratto da un romanzo di Robert Ludlum, le cui parole diventano pietra attraverso l’occhio anarchico e ribelle di Peckinpah, segue un andamento narrativo volutamente criptico e complesso, perchè tale è la realtà che si racconta (al netto dei gravi tagli imposti dalla produzione al montaggio). Il tutto diventa, così, magicamente efficace quando si tratta di tirare le somme: la Cia come il vero governo americano, le sue inestricabili ragion di Stato, l’assoluta e incontrollabile libertà del Potere, e i mass-media, televisione in testa, al centro di ogni strategia di necessario controllo delle masse. La democrazia formalmente ai suoi massimi livelli, contenutisticamente al servizio dei peggiori interessi economici e politici. Quello disegnato da Peckinpah è un mondo senza più logica, un Leviatano al servizio non più del più forte, saremmo ancora dentro la Storia, ma della manipolazione della verità spinta verso esiti degni della mente criminale del langhiano Dottor Mabuse (di cui sembra rievocare l’ultimo capitolo della trilogia, “Il diabolico Dr. Mabuse”, del 1960). Lo spionaggio non è più quello classico di Chandler e Hammett, e neanche quello New Hollywood raccontato nello splendido “La conversazione” di Francis Ford Coppola o nel possente “Tutti gli uomini del Presidente” di Alan J. Pakula. Qui prende la forma di un disegno onirico i cui riferimenti oggettivi sono allucinazioni ad occhi aperti, fatti che raccontano di uomini divenuti ingranaggi, perfetti e perversi, di una lucida follia, pedine insieme consapevoli e inconsapevoli del destino proprio e degli altri. Intrighi privati che diventano internazionali perché non c’è più distinzione tra le due cose. L’agente segreto è un uomo da punire o manipolare per affari di Stato, gli Stati devono muoversi asetticamente sfruttando però il fattore umano, reso cinicamente indispensabile. L’intreccio è perverso ma reale, financo necessario. Non ci sono più eroi o antieroi, a prevalere è una dinamica che prescinde da tutto ciò che non sia utile alla conservazione di interessi individuali e collettivi. Gli Stati sono involucri entro cui muoversi per mantenere intatti equilibri consolidati o per crearne altri allo stesso scopo. Questo meccanismo di scatole cinesi si moltiplica a dismisura, fino a diventare spaventoso e terrificante, quando il mostro si manifesta attraverso i mille occhi della televisione, il cui scopo è quello di uniformare le menti non più con la propaganda di goebbelsiana memoria, intesa come presa d’atto di una verità storica ormai consolidata, ma attraverso la costruzione di una sempre nuova e mutevole realtà a cui ogni individuo si adeguerà perché la logica che gli viene raccontata è stringente. Società dello spettacolo e civiltà del Potere assoluto si fondono, così, fino a diventare un’unica cosa, inestricabile e criptica, destinata ad essere persino scontata, come un teorema le cui coordinate fasulle hanno, comunque, una loro senso, stringente e inconfutabile. In questo oceano sommerso e terrificante della nostra “banale” quotidianità, Peckinpah naviga da par suo. Il cinema è sempre stato per lui un modo di disvelare, di andare oltre la realtà apparente. E la sua celebre e controversa “poesia della violenza”, esaltata dal geniale lirismo visivo del ralenti, accompagnata da un montaggio quanto mai frenetico e frammentato, si trasforma, in questo suo testamento morale (egli morirà pochi mesi dopo l’uscita del film), in una raggelata testimonianza dell’ultimo confine cui è giunto l’uomo contemporaneo.

L’immagine del Potere, il Potere dell’immagine

“Quinto potere”, di Sidney Lumet, Usa, 1976.

Con Peter Finch, William Holden, Faye Dunaway, Ned Beatty, Robert Duvall.

Se “Quarto potere”, di Orson Welles, aveva dato l’incipit all’analisi visiva del potere dei mass-media (in questo caso, il giornalismo), “Quinto potere” allarga il suo sguardo critico sulla platea sterminata della televisione, raccontandone i modi con cui viene gestita e manipolata da meccanismi implacabili ed inconsci. Lo sceneggiatore del film è Paddy Chayefsky, già vittima del maccartismo, e qui, in territorio New Hollywood, oramai libero di raccontare, marxianamente, dinamiche comunicative nate, naturalmente, da interessi economici ( la pubblicità è commercio, è industria, è finanza…), con conseguenti ed inevitabili intrecci politici. L’incipit del film, con un anchorman, Howard Beale (uno straordinario Peter Finch), sull’orlo della follia per i bassi indici di ascolto della sua rubrica Tv, che annuncia in diretta di volersi, prossimamente, suicidare davanti a milioni di spettatori, sembra aprire la strada ad una storia soltanto personale. Non sarà così. Il clamore mediatico creato dalla sua esternazione induce i dirigenti della rete Tv a cavalcare la tigre per aumentare i deficitari ascolti del Network. A gestire il tutto sarà l’avvenente Diana Christensen (una inarrivabile Faye Dunaway), cinica responsabile del settore programmi, alla ricerca dello scoop della sua vita che le consenta di arrivare al suo obiettivo di sempre, l’innalzamento dell’auditel, viatico al successo pubblicitario e, dunque, economico, della sua Tv. Beale viene lasciato fare, diventa un guru del piccolo schermo, predica persino contro la stessa Tv (il suo celebre monologo è diventato uno dei capisaldi della cinematografia di ogni tempo), accusata, di essere il trionfo del niente e creatrice di un pensiero unico, che già Marcuse, anticipando Pasolini, aveva teorizzato essere capace di ridurre l’uomo ad una sola dimensione, quella di consumatore. La Tv per sopravvivere arriva, così, persino a parlare male di se stessa. Il che è tutto dire. Il contraltare a tutta questa corsa verso il nulla è rappresentato dal collega e amico di Beale, Max Schumacher (un magistrale e disincantato William Holden), ultimo rappresentante di una antica informazione etica ed onesta, ed oramai tristemente consapevole della strada senza via d’uscita imboccata dal suo mondo. Lumet, da par suo, riesce a gestire al meglio un’opera narrativamente ricca e drammaturgicamente potente, in cui il circo mediatico televisivo diventa metafora di una società in cui il Dio denaro domina incontrastato ogni momento della nostra vita, entrando in ogni singola casa attraverso un occhio che riesce ad incantarti e a dominarti, secondo principi psico-sociali oramai diventati letteratura a disposizione di chiunque voglia essere consapevole di tutto ciò (indimenticabile, a tal proposito, è l’altro monologo di Beale, quello in cui egli invita i telespettatori, con grande successo, ad affacciarsi alla finestra per gridare “Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più”. E qualche anno dopo, si sa gli Usa anticipano sempre tutto, dalle nostre parti, un certo Celentano invitò i suoi telespettatori, con altrettanto successo, a spegnere le luci non ricordo neanche più perché, ma fortunatamente per niente di eversivo!). A chiudere il cerchio magico della fusione Media-Capitale è l’altro straordinario monologo del film, quello del Presidente del Network, Arthur Jensen (un eccezionale Ned Beatty), che rivolto al sempre più lucidamente sfasato Howard Beale gli ricorda come al mondo non esistano più ideologie ma flussi e riflussi finanziari, in cui sono immersi tutti i paesi del mondo, compresi quelli allora ancora comunisti, e dove più che i parlamenti ed i governi a deliberare sono i consigli di amministrazione delle principali multinazionali, che da sole detengono più dell’80% dei beni presenti sul nostro pianeta. Sì, la New Hollywood, di cui “Quinto potere” è una delle massime espressioni, fu una delle più grandi correnti cinematografiche del secolo scorso, perché dentro uno dei capisaldi della cultura, ma anche del capitale americano, Hollywood, seconda industria degli Usa dopo quella automobilistica, riuscì a dire al mondo verità oggi nascoste sotto chilometri di immagini inutili o peggio ancora dannose. E dire che questi nostri tormentati tempi avrebbero molto più bisogno di questi grilli parlanti, quantomeno pari in coraggio a quelli di quasi cinquant’anni fa!

 


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