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La tragedia della Marmolada e i dissociati del cambiamento climatico

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I fiumi restano in secca, il mare avanza e distrugge coltivazioni già compromesse dalla siccità, i ghiacciai crollano, si estinguono, le città restano invivibili per ondate di calore che durano settimane, alternate a tempeste tropicali. Sullo sfondo una pandemia che non molla la presa, nuove minacce sanitarie che si affacciano all’orizzonte, una crisi internazionale geopolitica e una alimentare che deve ancora esplodere del tutto, ma che già da tempo segna cifre record di persone che soffrono la fame.

La cronaca delle ultime settimane assomiglia in modo impressionante ai peggiori scenari che potevamo leggere solo pochi anni fa sul riscaldamento globale. Scenari che pensavamo ci avrebbero colpito tra 10, 20 o 30 anni, in cui invece ci troviamo dentro già oggi. 

La vicenda della Marmolada è stata una tragedia per tutti. Per le vittime e le loro famiglie, prima di tutto. Ma anche per tutti noi che abbiamo visto in faccia come mai prima d’ora il volto feroce del riscaldamento globale, un pericolo sulla bocca di tutti eppure ancora così difficile da capire.

La scomparsa del ghiacciaio della Marmolada e di tutti gli altri ghiacciai italiani è annunciata da tempo, non c’è niente di sorprendente. “I ghiacciai in alta montagna sono in crisi netta in tutto il mondo da un secolo e mezzo, tranne brevissimi momenti di inversione del processo, e negli ultimi 20 anni il fenomeno è accelerato”, aveva detto solo a metà giugno Claudio Smiraglia, uno dei massimi esperti di ghiacciai in Italia. “In Italia, nei ghiacciai alpini, si stimano ogni anno abbassamenti di spessore anche di 5 o 6 metri e riduzioni di lunghezza di decine o centinaia di metri”.

In quell’occasione, Smiraglia aveva indicato come chiaro responsabile il riscaldamento globale, e sottolineato il nesso con la siccità che da mesi già stava mettendo in ginocchio gran parte del Paese: “Abbiamo calcolato che nel bacino dell’Adda, in Lombardia, la percentuale di acqua che arriva dai ghiacciai non va oltre il 10-20 per cento”, aveva detto il ricercatore. “Un piccolo conto in banca che ci serve quando siamo proprio in crisi” che si sta letteralmente prosciugando.

 

I morti fuori dalle cronache

Quelle della Marmolada non sono le uniche vittime di queste settimane legate agli effetti del cambiamento climatico.

In Italia ce ne sono tante altre “invisibili”, dovute alle ondate di calore. Solo pochi giorni fa un report molto dettagliato di Ispra ha dato per la prima volta un bilancio sulle vittime delle ondate di calore che negli ultimi anni hanno colpito i capoluoghi di Provincia in Italia. A Perugia durante l’ondata di caldo del 2019 i decessi sono aumentati addirittura del 41 per cento rispetto alla media stagionale. Il “caldo eccezionale” del 2017 ha fatto crescere i decessi a Palermo del 20 per cento. Quello del 2015 del 17 per cento a Torino, del 16 percento a Milano, del 10 per cento a Genova. Sono morti invisibili, spesso anziani e persone fragili, gli stessi “soggetti a rischio” di cui abbiamo tanto parlato durante il Covid, ma che morendo per il caldo estremo non vengono neanche conteggiati. 

Fuori dai confini nazionali le vittime invisibili sono molte di più, legate a diversi fattori, tra cui il più spietato è la fame. Oggi parliamo molto di crisi alimentare in Italia, ma in altre parti del mondo la situazione è degenerata già da anni per effetto combinato di siccità, inondazioni, conflitti, aumento del prezzo, quasi sempre conseguenze del cambiamento climatico. Secondo le ultime stime della FAO, nel 2021 c’erano 2,3 miliardi di persone a rischio alimentare, di cui 924 milioni (l’11,7 per cento della popolazione mondiale) a livelli critici.

 

Ma siamo disposti a reagire? 

La siccità e la tragedia della Marmolada hanno generato discussione, indignazione diffusa, urgenza di agire. Ma la complessità della crisi climatica, interdipendente da tanti fenomeni, come l’uso dell’energia, i sistemi produttivi e di consumo, la gestione del suolo e degli oceani, ci rende incapaci di capirne fino in fondo le cause, di dare la giusta urgenza al problema e di comportarci di conseguenza, come singoli e come società. 

Soltanto pochi giorni dopo la Marmolada, mentre ancora eravamo sotto shock, il parlamento Europeo ha votato una discussa normativa che permette di indirizzare gli investimenti “verdi” su gas e nucleare, di fatto equiparandoli alle energie rinnovabili. Un atto criticato dal mondo ambientalista (e non solo) come una resa alle lobby del fossile, una rinuncia a fare dell’Europa un leader mondiale della transizione verde. 

Pochi mesi prima, sull’onda della crisi in Ucraina, le associazioni agricole Italiane ed Europee hanno chiesto a gran voce un “rinvio” delle politiche verdi dell’UE per aumentare la produzione. Sono le stesse associazioni agricole che nel 2020 hanno spinto per far votare una Politica Agricola Comunitaria (PAC) che di fatto ha annacquato le ambiziose strategie del Green Deal europeo, continuando a finanziare sistemi agricoli e di allevamento insostenibili. Ma sono anche le stesse associazioni che oggi rilanciano il grido disperato degli agricoltori italiani, i cui raccolti sono stati distrutti dal caldo o dall’acqua del mare che avanza.

Sono comportamenti contraddittori? Sono scelte dettate dall’interesse? Probabilmente sono politiche che mancano di visione, che puntano solo a preservare gli interessi di breve termine, mettere toppe, senza capire quanto sia pericoloso – anche economicamente – non programmare un vero cambio di passo per i prossimi anni.

 

Dissociazione cognitiva

Qualche giorno fa Sabrina Giannini, conduttrice del programma di RaiTre Indovina chi viene a cena, ha parlato di “dissociazione cognitiva” accusando pubblicamente il Jova beach Party di ipocrisia. “Dai concerti in spiaggia alla Marmolada, nelle questioni ambientali tutto si tiene”, ha scritto la giornalista. “Jovanotti che si dichiara ambientalista, dice di non mangiare carne e poi ha come main sponsor dei suoi concerti sulla spiaggia Fileni, che è tra i maggiori allevatori intensivi di polli, risulta incongruente. Come è strano che gli sia concesso di fare concerti accanto a parchi naturali ed aree protette”. 

Il concetto di “dissociazione cognitiva” è molto calzante: la crisi è sotto i nostri occhi ma non ne vediamo i motivi, i collegamenti con le nostre scelte quotidiane di consumo. Anche l’esempio degli allevamenti intensivi è centrato, per spiegare come la dissociazione è legata anche al nostro sistema di informazione. Chi ha letto qualche riga tra i nostri giornali sul ruolo dell’alimentazione nella crisi climatica, soprattutto in questi giorni in cui si è parlato di clima e di risparmio idrico? 

Eppure la scienza, dall’IPCC in giù, dice all’unanimità che l’industria alimentare è uno dei maggiori responsabili del cambiamento climatico, e il motivo principale è proprio l’allevamento: mangiamo carne, pesce e derivati a pranzo e a cena, tutti i giorni o quasi, e per potercelo permettere moltiplichiamo gli allevamenti intensivi, tanto che oggi si stima che nel mondo siano allevati ben oltre 160 miliardi di animali l’anno. Un numero enorme, che dovrebbe ridursi e invece continua a crescere, e che nasconde emissioni dirette, in particolare di metano (potente gas serra), consumo idrico, emissioni indirette, dato che oltre il 90 per cento della deforestazione tropicale è legato all’agricoltura, tranianta dall’espansione dei pascoli e dell’industria dei mangimi.

 

Di sciacalli e di struzzi

Il Giornale nei giorni scorsi ha attaccato alcune voci ambientaliste che si sono levate dopo la tragedia della Marmolada, parlando di “sciacalli dei ghiacci” e “gretini”, perché sull’onda emotiva di una tragedia hanno chiamato in causa il collasso ambientale. 

Senza entrare nel merito di una polemica infelice, il titolo ben rappresenta la nostra resistenza -come sistema di informazione tutto- a unire semplicemente i puntini. Non si tratta di approfittare di una tragedia per attirare i riflettori sulla crisi climatica. Si tratta di contestualizzare, cercare i veri responsabili, uscire dalla logica della sfortuna (che ha imperato anche nella narrazione del Covid) e far capire alle persone che non è un caso: ci saranno altre siccità, altre alluvioni, altre epidemie, altri ghiacciai che crolleranno e spariranno, altre catastrofi, e il livello dell’Adriatico andrà molto oltre i confini del Delta del Po, provocando danni che adesso è difficile immaginare. 

Se di sciacalli del clima dobbiamo parlare, per quanto resti infelice la definizione, potremmo dare questa etichetta a chi indirizza l’informazione su politiche verdi fasulle. A quelli che per mantenere il proprio status quo occupano giornali, pubblicità, summit e altri spazi di formazione dell’opinione pubblica, ostacolando un dibattito genuino, impedendo il cambio di prospettiva che sarebbe necessario, favorendo la dissociazione cognitiva.

Su questo aspetto, come mondo dell’informazione, forse dovremmo farci un’esame di coscienza. Troppe volte la crisi climatica, invece di finire in prima pagina, è stata relegata in sottosezioni dei giornali dedicate all’ambiente, spesso sponsorizzate da qualche marchio, non di rado con l’ombra del conflitto di interesse. 

Quello che è certo è che dopo il Covid, la guerra, i disastri climatici, oggi siamo di fronte all’ennesimo bivio: possiamo imparare da tutto questo e cambiare in meglio, anche radicalmente se necessario. Oppure mettere una toppa, riaccendere le centrali a carbone, sperare che tutto torni come prima – come se il prima non fosse la causa dell’oggi. Il problema è che la posta in palio è il domani, sono i nostri figli. Sono loro che dovranno vivere i prossimi 20, 50, 100 anni in un mondo di cui stiamo solo cominciando a vedere il volto ostile che noi stessi abbiamo prodotto


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