Sì, il viaggio in Canada di Francesco può essere ridotto a una foto-notizia; lui con il copricapo di penne d’uccello in testa. Ma quella foto-notizia va osservata a lungo, va capita. Perché parla nel profondo a ciascuno di noi. Che cosa ha fatto dunque quell’uomo malato, malfermo sulle gambe andando fino in Canada con evidente e grande sofferenza per indossare un copricapo ornato di piume, classico dei popoli indigeni del Canada, a casa loro? Cosa ha fatto dicendo da lì l’evidente verità, e cioè che la Chiesa è stata complice e che “nulla può cancellare la dignità violata, il male subìto, la fiducia tradita”? Nulla di particolare o qualcosa di eccezionale? Dipende da come rispondiamo a una domanda: quante culture rendono “mondo” il mondo? C’è forse una cultura, un libro, una realtà? E il cristianesimo impone una cultura, un modo di vestirsi, di nutrirsi, o unisce in sé quante culture può e sa incontrare? I monisti, cioè gli avversari del pluralismo, sono serviti. Ma chi sono i monisti? Giancarlo Bosetti li ha immortalati in un suo libro: sono quelli che custodiscono l’albero della Verità nella cucina di casa. Dunque il monismo non è uno, ma ogni concezione filosofica che consideri la realtà come essenzialmente unica o riducibile a un unico principio fondamentale. Ogni monismo, in realtà, è nemico di Dio, che ci ha voluti diversi. Questo è il messaggio essenziale, evangelico e quindi rivoluzionario, del pellegrinaggio canadese di Francesco. Proprio per questo trovo significativo che papa Francesco trascorra i giorni del nono anniversario del sequestro di padre Paolo Dall’Oglio tra gli “indiani canadesi”. Lo trovo rilevante anche se so che non v’è alcun collegamento né voluto né pensato tra le due cose. Ma Francesco è il testimone della lotta per mantenere viva la nostra civiltà. E questa lotta, il cui esito non è più scontato, nel decisivo Levante è stata incarnata un decennio fa, in un momento cruciale per la nostra storia, da padre Paolo. Il tratto che unisce il viaggio e la memoria oggi è il no all’assimilazionismo.
Quello che ho appena usato non è un vocabolo “morbido”. Nel senso che l’assimilazionismo che denuncia il papa in queste ore è quello che ha teso a cancellare dal Canada, come dall’Amazzonia, la cultura e la spiritualità dei popoli nativi nella convinzione che esista una realtà, un modo di essere, vivere, pensare. Questo si può fare in tanti modi. In Canada questo cammino è arrivato alle pratiche di eliminazione dei bambini delle comunità native, sepolti come sappiamo in fosse comuni a poca distanza dalle scuole cattoliche di cui erano “ospiti”. Non è questo l’unico modo per assimilare, cioè negare una cultura. La storia amazzonica, recente, è nota: spossessamento, deforestazione, colonizzazione, e quindi assimilazione.
E cosa c’entra Dall’Oglio con l’assimilazionismo? C’entra eccome, perché lui con la sua comunità dedita all’amorevole coesistenza tra cristiani e musulmani puntava a riconoscere l’islam, come qualsiasi cattolico può fare, come opera dello Spirito Santo. La sua comunità a Mar Musa accoglieva i musulmani secondo uno stile di vita orientale, nella gestione degli spazi, dei gesti, dei modi, testimoniando quindi un rifiuto cristiano dell’occidentalizzazione delle genti di lì. Non ragazze in minigonna, con il trucco marcato, e non donne col velo pesante, chiuso, alla saudita. La tradizione locale, comune a donne cristiane e musulmane, era un’altra: un velo leggero, ben aperto sul capo. Gli altri due erano e sono i due modelli assimilazionisti proposti dalle televisioni, non da Mar Musa.
Come i popoli indigeni conoscono Dio, presente da sempre nella loro spiritualità, così l’islam conosce Dio, presente da sempre nella spiritualità dei musulmani. Questo riconoscimento sfida l’idea assimilazionista che proprio Dall’Oglio ha spiegato meglio di tutti: “fuori dalla vera fede ci sono solo false credenze e quindi una falsa umanità”.
E’ importante allora tornare a domandarsi perché Francesco abbia deciso, nelle condizioni di salute in cui si trova, di recarsi in Canada, mentre ha rinunciato ad altri viaggi a cui teneva moltissimo. Io credo perché avverta come quella assimilazionista sia la scelta che può distruggere insieme agli altri anche noi, la nostra civiltà. Non c’è bisogno di portarla fino ai suoi comportamenti estremi, come in Amazzonia o in Canada . Basta ritenere civile il nostro ornarci con un pezzo di stoffa appeso al collo (la cravatta) e primitivo l’ornarsi con un copricapo di piume d’uccello. Non lo dico io, lo disse lui, quando gli rimproverano di aver ricevuto degli uomini pennuti in Vaticano, ai tempi del sinodo sull’Amazzonia. “Che differenza c’è tra l’ornarsi il capo con piume e l’indossare, come fanno molti nella Curia Romana, il tricorno”? Il tricorno è il tradizionale copricapo a tre punte dei cardinali. Ecco cosa significa che lì, in Canada, abbia indossato quel copricapo con le piume, simbolo di una cultura, di una tradizione, di una civiltà.
Il motivo per cui Dall’Oglio non è stato capito dalle Chiese d’Oriente è proprio questo: l’islam per loro -nel loro profondo-è una deviazione dal vero. Questa visione, figlia di problemi innegabili, ha impedito e impedisce il superamento di quei problemi e quindi favorisce l’integralismo islamico, che vuole imporre analogamente il suo assimilazionismo. Certo, gli assimilazionisti sono impossibilitati ad assimilare i musulmani, ma lo vorrebbero fare, per salvarli. E se non si può allora l’unica alternativa è andarsene. Come purtroppo sta accadendo sempre più evidentemente a tanti cristiani in fuga dall’Oriente arabo.
Dall’Oglio così è stato il Charles de Foucauld del Levante, cioè della terra dove ebrei, cristiani e musulmani comunque dovranno vivere insieme la loro fratellanza. Ecco perché dirsi da lì “credente in Gesù, innamorato dell’islam” è stato il più alto grado di cattolicesimo espresso, vivo, come quello del “fratello universale” Charles de Foucauld, il suo farsi tuareg tra i tuareg, o il “farsi tutto a tutti” di San Paolo. Questo messaggio, respinto da gran parte delle Chiese orientali perché troppo difficile con vicini così difficili, ricorda da vicino, da vicinissimo quello che Francesco è andato a portare fino in Canada, seduto sulla sua sedia a rotelle. In “Querida Amazonia” Francesco ha scritto: “Sogno un’Amazzonia che lotti per i diritti dei più poveri, dei popoli originari, degli ultimi, dove la loro voce sia ascoltata e la loro dignità sia promossa.Sogno un’Amazzonia che difenda la ricchezza culturale che la distingue, dove risplende in forme tanto varie la bellezza umana. Sogno un’Amazzonia che custodisca gelosamente l’irresistibile bellezza naturale che l’adorna, la vita traboccante che riempie i suoi fiumi e le sue foreste. Sogno comunità cristiane capaci di impegnarsi e di incarnarsi in Amazzonia, fino al punto di donare alla Chiesa nuovi volti con tratti amazzonici”.
Non possiamo leggere questo passaggio anche leggendo “sogno un Canada”, “sogno un mondo arabo”, “sogno un Levante”, “sogno un’Europa”? Eh sì, c’è anche l’assimilazionismo europeo. E questo è un discorso che ci porta più lontano, anche nella campagna elettorale in atto.
Chi ha descritto infatti “l’assimilazionismo reale” in atto qui da noi è Pier Paolo Pasolini. Solo ricorrendo a lui riuscirò a far capire perché ritenga assimilazionismo inconsapevole la recente definizione di Mario Draghi come un docente ad Harvard che ha avuto una supplenza alla scuola alberghiera di Massa Lubrense, come l’offesa atroce a Renato Brunetta. Cosa c’entra questo con l’assimilazionismo? Leggere Pasolini ci aiuta: “come polli d’allevamento gli italiani hanno subito assorbito la nuova ideologia irreligiosa e antisentimentale del potere: tale è la forza di attrazione e di convinzione della nuova qualità di vita che il potere promette, e tale è, insieme a, la forza degli strumenti di comunicazione (specie la televisione) di cui il potere dispone. Come polli d’allevamento gli italiani hanno indi accettato la nuova sacralità, non nominata, della merce e del suo consumo”. Questo assimilazionismo elimina le culture borghese, contadina, operaia, lasciandoci solo la cultura di consumatori. Se il borghese avrebbe respinto l’uso del corpo altrui per polemica politica, l’operaio sarebbe rimasto sorpreso per l’idealizzazione di Harvard rispetto a Massa Lubranse e il contadino dal genuflettersi davanti alla cattedra universitaria rispetto all’insegnamento del mestiere. Ma tutto questo è certamente compatibile, o non grave per il consumatore. Ovvio che chi viva un senso di famiglia con la natura, con l’ambiente, debba essere modificato e assimilato.
Ecco allora la lezione che viene dal viaggio: la nostra civiltà non nasce nel Settecento, non comincia con Cartesio. La nostra civiltà comprende Cartesio, certamente, ma comincia con Enea, con il suo viaggio contrapposto a quello di Ulisse. Non il ritorno, ma l’andare avanti, è lo scopo della vita! Vico ci ha insegnato che solo con l’immaginazione possiamo capire un uomo, come noi, vissuto tanti secoli fa. Possiamo capire il mondo omerico, ma non dobbiamo vivere per la nostalgia. Chi vive nel timore dei marosi del domani in realtà cerca la protezione dell’orda, chiusa e violenta, per la quale non esiste sviluppo storico, ma inimicizie e ostilità eterne. Ecco perché il loro viaggio ritorna, è lì l’unico futuro desiderabile. Invece il viaggio nella linearità del tempo, cioè nella storia, produce e propone pluralità nella nostra cultura come nel viaggio costruito sull’incontro proposto da Dall’Oglio, che non a caso prese a suo esempio Matteo Ricci, il gesuita che si fece cinese per aprire la Cina a noi e noi alla Cina.
Il tratto che unisce davvero questi giorni nel segno di Francesco è la consapevolezza di quanto pesino le emozioni, le paure profonde, nel nostro approccio alla geopolitica. E alla politica. Per questo i giorni che viviamo ci indicano la via del pluralismo nel viaggio con cui il papa respinge la via assimalazionista mentre cade l’anniversario del sequestro di un suo confratello gesuita che ha fatto della via d’Abramo la via alla costruzione di una consapevolezza che non si consuma al bar, ma si costruisce nella storia.