Cercava la giustizia e costruiva la pace, Abraham Yeoshua, il grande scrittore israeliano spentosi ieri all’età di ottantacinque anni. È superfluo star qui a ricordare le sue opere: tante e tutte di altissimo livello, a dimostrazione di una capacità di scrittura quasi ineguagliabile, di una lucidità straordinaria e di una passione politica e civile che lo rendeva non solo un letterato di fama mondiale ma anche una persona rara e di cui avvertiamo già ora l’assenza. Ci mancherà di lui la tenerezza, la dolcezza con cui riusciva ad ambientare le sue storie, conferendo a ciascun personaggio un tratto autentico e squisitamente umano una genuinità che lasciava senza parole e una prossimità con il lettore che ci rendeva complici di ogni sua riga. Del resto, per Yehoshua, instancabile testimone di amore per il prossimo, la letteratura aveva una funzione sociale, come del resto accade ad altri narratori di quella terra martoriata eppure indispensabile per le sorti del mondo. Pensiamo al compianto Amos Oz e a David Grossman, a Etgar Keret e ad altre figure significative di un universo valoriale nel quale ci riconosciamo pienamente, a dimostrazione di quanto non abbia senso parlare di “valori occidentali” a fronte dei valori universali che dovrebbero accomunare l’intera comunità umana.
Yeoshua era uno scrittore profondamente ebreo ma, al tempo stesso, cosmopolita, un cantore dei suoi luoghi ma anche un autore innamorato del nostro Paese, animato da quell’inquietudine che spesso scuote coloro che desiderano una giustizia autentica e in grado di accogliere ciascuno e ciascuna, senza esclusioni né discriminazioni o razzismi si sorta.
Ci lascia un personaggio di cui abbiamo letto e continueremo a leggere avidamente gli scritti, anche perché avvertiamo la necessità di immergerci in riflessioni da cui sia stata espulsa ogni forma di odio, in una fase storica in cui a dominare è proprio questo sentimento maledetto che sta avvelenando chiunque a ogni latitudine.
Abraham Yehoshua, nato a Gerusalemme in una famiglia d’origine sefardita e residente, negli ultimi anni, ad Haifa, osservava con attenzione tutto ciò che si muoveva intorno a sé, auspicando una condivisione ideale fra israeliani e palestinesi e la conclusione sia della colonizzazione tanto cara a una certa destra israeliana sia le predicazioni violente che, purtroppo, hanno infestato negli ultimi decenni la Striscia di Gaza.
Tutta la sua vita è stata una costante ricerca di comprensione verso l’altro, un guardare negli occhi il suo prossimo e un tentativo, non ingenuo, di incontrare e abbracciare anche il nemico, come solo le personalità di livello superiore sanno fare.
Ci domandiamo cosa si staranno dicendo, lassù, lui e Oz. Sfogliamo e rileggiamo le loro pagine e ci accorgiamo di quanto sia struggente, di questi tempi, ogni addio. Perché adesso tocca a noi riprendere un discorso di fratellanza e sorellanza fra i popoli, ma non abbiamo quella forza d’animo, quella disposizione naturale al dialogo e quella potenza espressiva che caratterizzava il loro modo di essere. Nonostante tutto, però, non possiamo cercare alibi. Dobbiamo andare avanti, proseguire la loro azione come possiamo e far tesoro dei loro insegnamenti.
Abraham Yehoshua non può più parlare, ma per fortuna la sua voce è ancora qui, pronta a sconfiggere il silenzio, l’indifferenza, la solitudine e la furia disumana che segna in maniera drammatica questo non periodo. L’importante è non arrendersi mai, come ha fatto lui fino all’ultimo giorno.
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