E’ il primo rialzo dei tassi della Bce dopo 11 anni. 25 punti base, a cui seguirà un secondo aumento, a settembre, se l’inflazione non rallenterà. Si poteva mettere un tetto al prezzo del gas, sarebbe stato meglio per raffreddare l’aumento dei prezzi. Ma questo dipendeva dai governi europei, non dalla Bce. Che così ha scelto di rallentare la crescita: rallentare la domanda per contenere l’inflazione. Come se l’inflazione fosse endogena, cioè determinata da una crescita della domanda interna. In realtà è esogena: la crescita dei prezzi è stata all’inizio determinata da una ripresa dell’economia mondiale dopo il contenimento della pandemia grazie ai vaccini. Ciò, come sempre, ha spinto gli investitori a scommettere (speculare) sulle materie prime, “riscaldandone” il valore. La guerra in Ucraina ha fatto il resto, facendo esplodere in particolare i prezzi di gas e petrolio, sempre con l’intervento della speculazione da parte degli investitori ed anche perché l’Opec (Organization of the Petroleum Exporting Countries – Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio) ha sottolineato di non poter compensare, con un aumento di produzione, il calo delle forniture di petrolio russo in conseguenza alle sanzioni occidentali.
L’aumento dei tassi
E dunque le Banche centrali intervengono aumentando i tassi. Così anche negli Stati Uniti, dove però l’aumento dei prezzi è determinato da un aumento di domanda interna, dunque un’inflazione endogena. Gli Usa sono autosufficienti (anche esportatori) per quanto attiene le fonti di energia. Mentre in Europa, come detto, l’inflazione è esogena, cioè “importata” dal prezzo soprattutto dell’energia stessa, in particolare del gas, e degli effetti speculativi sottesi. Senza dimenticare quanto la guerra incida anche sul prezzo del grano e, più in generale, su tutto l’agroalimentare per la scarsità di fertilizzanti a seguito delle misure contro la Russia.
Indebolimento dell’euro
L’inflazione europea si riflette anche con l’indebolimento dell’euro. Già debole nei confronti del rublo (era a poco meno di 90 prima della guerra e ora è a 60, anche il dollaro americano da 78 è andato 58). Un’inflazione che se dovesse generare la spirale dell’aumento dei salari (quasi inevitabile in Italia visto che è l’unico paese europeo dove i salari sono diminuiti dal 1990) non sarà certo fermata dall’attuale provvedimento della Bce. Come detto, meglio sarebbe stato contenere l’aumento dei prezzi con un tetto al prezzo del gas, ma la Germania per ora è contraria per timore di esporsi al rischio di un calo nelle proprie forniture.
Fine del Quantitative Easing (QE) e l’aumento dello spread
Ed ecco la seconda misura adottata da Christine Lagarde, presidente della Bce: la fine del Quantitative Easing, cioè dell’acquisto dei titoli di Stato degli stati membri da parte della Bce stessa. Ciò ha esposto l’Italia ad un grande calo di fiducia degli investitori con la salita verso alti valori del nostro spread (ovvero la differenza di rendimento tra i Btp e Bund tedeschi decennali).
Il nostro rapporto Debito/PIL elevato, ormai giunto a superare il 150%, è sostenibile solo se c’è una forte crescita del PIL (Prodotto Interno Lordo), che nelle prospettive, anche legate agli investimenti dell Pnrr (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), sembrava plausibile. Gli effetti della guerra e delle sanzioni contro la Russia, oltre alle misure della Bce riducono sensibilmente le stime della nostra crescita. Mentre il costo del danaro e degli interessi che lo Stato italiano deve pagare per l’emissione dei propri titoli crescono.
Le prospettive
Lo Stato deve spendere denaro (spesa pubblica) per garantire i servizi ai cittadini e il mantenimento dello Stato stesso, oltre a sostenerne la crescita economica attraverso investimenti, ed anche per finanziare il proprio deficit (che si genera se le uscite superano le entrate nel bilancio annuo). Se questo denaro viene chiesto in prestito, come per esempio con i Btp, lo Stato contrae un debito. L’accumulo di tutti i debiti dello Stato genera il cosiddetto debito pubblico che, come visto, è quello che lo Stato contrae per far fronte al proprio fabbisogno generale.
Ma per valutare lo stato di salute di un Paese si usa spesso un altro indicatore: il rapporto debito/Pil. Ossia il rapporto tra l’ammontare del debito pubblico e il Prodotto interno lordo, cioè il Pil, che semplificando possiamo definire come il valore totale dell’attività produttiva di un Paese (considerando beni e servizi) nell’arco di un anno (si escludono ii beni e servizi prodotti all’estero da soggetti nazionali, mentre vengono inclusi beni e servizi prodotti in Italia da soggetti esteri, ed è per questo che si definisce prodotto “interno”).
Nell’indicatore dato dal rapporto debito/Pil – che è tanto migliore quanto è basso – si capisce quanto sia fondamentale che:
debito
Pil
- il denominatore cresca, dunque il Pil, e
- che il numeratore diminuisca, dunque il debito pubblico.
Il debito pubblico però aumenta all’aumentare dei tassi e dunque dei rendimenti dei titoli di Stato, in particolare con chi ha un grande debito che è costretto a finanziare con i titoli di Stato stessi, come appunto l’Italia.
L’anno scorso il Pil italiano è cresciuto del 6,6% ed i rendimenti medi dei titoli di stato erano molto bassi come si vede nel grafico del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF). Secondo l’Istat infatti il deficit è sceso del 7,2% e così anche il debito pubblico che è sceso al 150,4% dal 155,3% del 2020.
Lo spread
Ma nelle prospettive per l’economia italiana nel biennio 2022-2023 del 7 giugno scorso, l’Istat ha tagliato le stime di crescita del pil Italia al 2,8% nel 2022 (+1,9 nel 2023) e vede l’inflazione al 5,8%. Questo già prima dell’annuncio della presidente Lagarde. Inoltre il rendimento dei titoli di Stato italiani è arrivato a toccare il 4%. Ed ecco perché lo spread è schizzato a 251. Valori simili a marzo 2020 quando la presidente della Bce Christine Lagarde, nel pieno della pandemia, dichiarò che «non è compito della Banca Centrale Europea ridurre gli spread» e di «non voler essere ricordata per un altro whatever it takes» riferendosi all’annuncio del 2012 dell’allora presidente della Bce, Mario Draghi. La dichiarazione della Lagarde generò un panico incontrollato nelle borse europee e contribuì allora a mettere ancora più in difficoltà l’Italia. Poi la Lagarde si corresse.
Ed anche adesso, dopo il suo annuncio della fine degli acquisti dei titoli di stato e dell’aumento dei tassi, non ha fatto cenno all’ipotesi, che sembrava prevista, dell’adozione di uno strumento di protezione dello spread (scudo anti-spread) dei paesi periferici dell’Eurozona in caso di impennate di differenziali di rendimento. Speriamo presto si corregga altrimenti all’orizzonte, ed in particolare per l’Italia che ha comunque le sue responsabilità, si potrebbe profilare una tempesta perfetta.