La storia che sto per raccontarvi non riguarda solo me: è un problema collettivo che investe l’intera comunità, a cominciare da chi, come molte e molti di coloro che animano questo sito, siano essi lettori o giornalisti, uomini e donne senza distinzioni, ha il piacere quotidiano di esprimere liberamente le proprie idee. Facebook ha messo sotto accusa un mio post dello scorso 29 marzo in cui esprimevo la gioia di incontrare dal vivo, in un evento che si sarebbe svolto di lì a poco, alcuni dei protagonisti e delle protagoniste della mia inchiesta sui fatti di Genova: adescamento di adulti, solo per aver detto che li vedevo con estremo piacere e che voglio loro profondamente bene. Tuttavia, il peggio doveva ancora venire. Se quella volta sono stato “graziato” perché era il primo infortunio in tredici anni di mia presenza su questo social, infatti, il 26 maggio mi è stato comunicato che avrei subito una limitazione di trenta giorni alla possibilità di creare inserzioni e trasmettere video in diretta per un post del 13 febbraio in cui esprimevo apprezzamento per un libro di Tiziana Barillà (“Quelli che non spezzano”). Il punto è che nel post in questione era riportato un passaggio relativo ad Abdullah Öcalan, considerato un terrorista dai turchi e, evidentemente, anche dai gestori di Facebook. Di fronte al mio ricorso, tante scuse e nessuna sanzione. Salvo ritrovarmi un mese dopo a dover fare i conti con una nuova sanzione, la stessa della volta precedente, per il medesimo post incriminato che sono oltretutto certo di aver rimosso e che era già stato ritenuto conforme agli standard della comunità.
Ora, tutte e tutti voi mi conoscete bene. Sapete che non ho mai diffamato nessuno, che sono sempre stato una persona attenta e rispettosa, che non ho mai utilizzato i social alla stregua di uno sfogatoio e che non ho mai commesso alcun reato: né di adescamento né di sostegno al terrorismo o a chi compie azioni men che degne e benemerite. Mi spiace dirlo, ma qui non è in gioco la mia persona. Non ho mai creato un’inserzione in vita mia e non avevo previsto di realizzare alcun video in questa stagione, pertanto il danno per me è inesistente. È una questione di principio. Io mo riconosco questo giudice virtuale e lo ricuso. Non ammetto che esista un tribunale immateriale in cui, sostanzialmente, è quasi impossibile difendersi. Non sopporto che le nostre vite siano regolate da un algoritmo, per di più inasprito a causa di polemiche pretestuose e della barbarie bellica che sta devastando le nostre società. E mi domando quali siano i “valori occidentali” se tra di essi non rientra più la libertà d’espressione, se non si può più presentare un libro, se non ci si può opporre al pensiero unico dominante, se bisogna autocensurarsi su argomenti gravi e dirimenti; insomma, se la democrazia va bene a patto che omaggi il potere e non dica una parola fuori posto. Mi spiace, ma per questo genere di pratiche bastano quelle autocrazie che diciamo di voler combattere e alle quali, di conseguenza, non possiamo uniformarci.
Da uomo di pace, sono contrario a ogni forma di conflitto, a cominciare da quello che sta disintegrando il nostro stare insieme e rendendo impossibile ogni forma di dialogo e di confronto civile.
La sanzione svanirà entro un mese e, probabilmente, scontata la mia pena, sarò di nuovo libero di dire la mia anche in video. Ma l’amaro in bocca mi resterà, al pari della decisione di cambiare molti aspetti della mia esistenza, tra cui la presenza sui social, che intendo ridurre in favore di una maggiore immersione nella vita reale, magari aprendomi un sito o un blog, trasmettendo altrove, riscoprendo il piacere della sana, vecchia telefonata o, non essendo per nulla contrario alla modernità, di una bella videochiamata.
I social sono utili e importanti, mi hanno dato tanto, mi hanno consentito di incontrare splendide persone e mi hanno offerto opportunità un tempo impensabili. Non intendo, dunque, abbandonarli e, anzi, intendo ricalibrare la mia presenza e utilizzarli in maniera ancora più proficua e utile alla collettività. Non voglio, però, divenirne schiavo, non mi abbasso al giudizio di un’entità incorporea, offensiva, nociva e pericolosa e penso che questo dibattito dovrebbe investire le massime autorità europee, trattandosi non solo dell’uso che viene fatto dei nostri dati, di cui sappiamo poco o nulla, ma anche del nostro grado di indipendenza e di autonomia di pensiero e di giudizio, purtroppo messa a repentaglio da una serie di misure repressive che ho sempre reputato incivili e indegne del concetto stesso di democrazia.
Esprimo, in conclusione, una fondata speranza: che non sia il solo a pensarla così. E che il desiderio di vita reale, passione autentica, incontri effettivi e dialoghi non effimeri e non mediati da uno schermo, dopo un decennio di viaggio corale al centro dell’abisso del web, stia tornando di moda. Ci pensino bene i proprietari di questo meta-Stato, prima di trovarsi a dover fare i conti con l’abbandono, reale o di fatto, di tante e tanti che gradiscono sì avere una comunità virtuale ma a patto che possa diventare anche effettiva. E, soprattutto, non soggetta al giudizio divino di una macchina insulsa che ci disumanizza al punto di renderci ancora più malvagi. Qualcuno a questo degrado morale dice no.
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