Ci ha lasciato Raffaele La Capria, detto dagli amici Dudù, a un passo soltanto dal traguardo dei cento anni, che avrebbe compiuto il prossimo tre ottobre. Ma forse non ci teneva particolarmente, dal momento che Raffaele si accontentava di vivere con pienezza la vita giorno per giorno, osservandola e, come aveva sempre fatto, scrivendone. Dopo “Ferito a morte”, il suo romanzo Premio Strega del 1961, ci aveva regalato una gran quantità di libri che non sono bastati due magnifici volumi dei Meridiani a raccoglierli tutti. Erano il suo orgoglio, li teneva in vista in una delle sue librerie del primo salotto dopo l’ingresso, e li sogguardava incredulo con un mezzo sorriso.
La Capria era un grandissimo scrittore di vita, nel senso che la vita era il suo inesauribile deposito di trame al quale attingere quando aveva bisogno, per trasfigurarle sulla pagina con lo “stile dell’anatra”. Era questa la sua espressione preferita per descrivere quella estrema eleganza del palmipede di scivolare sull’acqua senza che nessuno sospetti l’instancabile sforzo muscolare delle zampette sotto la superficie.
L’altro suo mito privato era la ‘bella giornata’ che, se ti accoglieva risplendendo la mattina fuori della finestra, era sicuro presagio del favore degli dei.
Il terzo mito erano i tuffi, la scioltezza impeccabile con cui fin da ragazzo si gettava dal terrazzo di Palazzo Donn’Anna direttamente nelle acque azzurre di Posillipo.
Il quarto mito, che dovrebbe figurare al primo posto per importanza, era sua moglie Ilaria Occhini, fiorentina, attrice di grazia, nipote di Giovanni Papini, donna di rara bellezza. Lo scrittore provava un eterno stupore nei confronti della fortuna sfacciata che aveva permesso a lui “bruttarello”, sono sue parole, di far innamorare una creatura così straordinariamente avvenente da sembrare una dea.
Ho conosciuto La Capria nel 1970, quando muovevo i miei primi passi nella Capitale, e non so più per quali trafile qualcuno mi aveva indirizzato a lui. Ero andato a incontrarlo alla RAI per portargli in lettura la mia tesi di laurea su Federico Fellini. Era la prima volta che entravo nel modernissimo palazzo a vetri della Televisione Italiana, a viale Mazzini. Il suo ufficio era al quinto piano, nella sezione dei Servizi Culturali diretti al tempo da Fabiano Fabiani. In seguito alla vittoria del Premio Strega era stato assunto dall’ente pubblico grazie all’interessamento del suo amico d’infanzia e di liceo Giuseppe Patroni Griffi, che era già un funzionario influente.
Da vero gentiluomo mi attendeva sulla porta del suo ufficio, mi accolse con cordialità, mi fece parlare fingendosi interessatissimo e alla fine trattenne come di dovere il mio manoscritto. Dopo due giorni mi chiamò al telefono dicendomi di presentarmi per un colloquio con il caposervizio Giovanni Tantillo. Il quale diventerà in seguito direttore di Rai 1. Con lui iniziò la mia più che decennale collaborazione alla televisione.
Con la Capria non ci rivedemmo per tanti anni, ma io non mi ero più perso neppure uno dei sui libri. Ci incontrammo di nuovo nel terzo Millennio, a casa sua, un attico stupendo a Piazza Grazioli 5, a un passo dal Collegio Romano, nel più autentico cuore di Roma. Poco lontana c’era la Chiesa di Sant’Ignazio di Loyola dove si è tenuta la cerimonia funebre per l’addio allo scrittore. salutato da una folla immensa, come capita ancora, per fortuna, quando ci abbandona un principe delle lettere.
Dal 2003 avevo recensito ogni suo titolo all’uscita, e ogni volta ci sentivamo per telefono e ci incontravamo per una lunga passeggiata nelle vie del centro. Per me era una festa perché apprendevo sempre qualcosa di raro, sulla sua persona, ma anche sulla scrittura, sul cinema, sulla letteratura. Imparavo a capire in maniera diversa, come accade soltanto con personaggi di quella levatura che avendo animo generoso non lesinano il proprio sapere a chi sa ascoltare. Affabile senza cerimonie, amico senza interesse.
Negli ultimi tempi un giorno mi chiese di poter leggere il mio romanzo d‘esordio, “L’amore in corpo”. Mi precipitai a portargliene una copia, felice soltanto che vi posasse gli occhi. Riferisco questo episodio, lo ammetto, per pura vanità, perché una volta letto, Raffale mi telefonò per rivolgermi il più sbalorditivo complimento che abbia mai ricevuto in vita mia. Un’incoronazione, con parole che purtroppo non posso ripetere perché mi confidò osservazioni estremamente private. La fiducia non va tradita, ma quelle parole ancora mi inebriano.
Nel 2016 La Capria scrisse un breve libro prezioso, in cui raccontava con divertimento, dolore, malinconia e affetto inestricabilmente mescolati, il distacco dagli amici che se ne andavano e lo lasciavano sempre più solo. Quell’originale saluto in età avanzata, 94 anni, sembrava rivolto a loro, e invece era il proprio congedo. Credo che non ci sia testo migliore per salutarlo, chinando il capo alla sua maestria.
IL PRINCIPE DELL’ARMONIA
La Capria è il più dolce dei conversatori, il più profondo, capace da grandissimo scrittore qual è di produrre in chi lo legge l’illusione di trovarsi nel suo salotto, di fronte a lui, e di ascoltarlo parlare sperando che non si stanchi mai. Questo stato di grazia ci cattura immergendoci nelle pagine del volume appena uscito da Nottetempo in cui l’artista partenopeo indugia a salutare gli amici che, uno a uno, lo lasciano via via più solo sulla sponda dei vivi. Ed egli per esprimere la profonda malinconia che gli invade l’anima ricorre per il titolo al verso di una delle terzine più famose di tutta la Divina Commedia: “Era già l’ora che volge il disio/ ai naviganti e intenerisce il core/ lo dì ch’han detto ai dolci amici addio”. Con una sottile differenza che trascura di proposito, con squisito fair play: il suo non è lo struggente languore di chi veleggiando in mare aperto misura il vasto distacco, ma di chi resta a guardare dalla terraferma; sono gli altri a voltargli le spalle per l’imperiosa chiamata. Così Raffaele indugia a ricordarli, ma non abbracciando le ombre come un eroe omerico o virgiliano, bensì donando loro nuova esistenza, forse persino più concreta, sul palcoscenico luminoso della memoria. E il piacere che se ne trae è davvero impareggiabile.
Lo scrittore pur nel crepuscolo dell’elegia e di un intimo, inevitabile struggimento, non scrive medaglioni d’occasione, non ci consegna santini profumati d’incenso, ma per magia ci ripropone gli amici nella loro pura ‘materialità’, ritraendoli al vivo senza scaltri accomodamenti. Spesso anzi si ride a tradimento, come accade nell’affettuoso ricordo di Alberto Moravia: “Quando ripenso ai tanti momenti che ho passato con lui, alle nostre conversazioni e ai continui qui pro quo provocati un po’ dalla sua sordità un po’ dal fatto che anche quando dicevamo la stessa cosa continuavamo a litigare come se fossimo in disaccordo, io mi sorprendo inevitabilmente a ritrovare (…) l’adolescente che per me era Moravia”. Imperdibile la sequenza alla Jonesco in cui l’autore de Gli indifferenti decise di sposare Carmen Llera solo perché si era creato un ‘silenzio pesante’.
Nella breve nota introduttiva La Capria utilizza il termine greco epicedio, con cui nella retorica antica si indicavano le commemorazioni, i componimenti poetici in morte di qualcuno. Un genere derivato forse dal canto funebre. Lessicalmente inappuntabile, salvo che nei suoi racconti di funereo c’è ben poco, se si tralascia l’incombere del fato: “Negli ultimi anni con alcuni di loro ero nella stessa trincea, la trincea dell’età, battuta dalla mitragliatrice inesorabile del tempo. Così sono stati colpiti prima Peppino, poi Antonio, e ora Franco”. Sono amici dai nomi famosi, e lui inizia dai più stretti, i compagni di scuola addirittura, che si chiamano Giuseppe Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, Francesco Rosi. Ma nel Liceo Ginnasio Umberto I di Napoli c’era anche, staccato di una classe o due, Giorgio Napolitano. Insomma si stava in buona compagnia, e non credo che sia così frequente incontrare nello stesso istituto scolastico una tale concentrazione di celebrità, tutti partiti da Napoli per cercare fortuna a Roma, e con quale riuscita! Un po’ di invidia si prova per un’esistenza trascorsa a contatto stretto con tanti fuoriclasse, veri principi delle lettere come Bill Weather (traduttore di “Ferito a morte”, primo successo di La Capria, e ambasciatore negli Stati Uniti di quasi tutta la nostra letteratura del Novecento), e poi Elsa Morante, Valentino Bompiani, Goffredo Parise, Giovanni Urbani, Vittorio De Seta, Cesare Garboli, Anna Maria Ortese: un’intera squadra di calcio di soli centravanti!
Cominciamo da Franco Rosi, di cui lo scrittore confessa di aver capito la vera grandezza soltanto dopo la scomparsa. Eppure era stato lo sceneggiatore di alcuni suoi capolavori, a partire da La mani sulla città, Cristo s’è fermato a Eboli, Uomini contro, C’era una volta: “La nostra è stata non solo un’amicizia di sentimento, ma anche di lavoro, durata circa ottant’anni: da quando ragazzini ci tuffavamo nelle acque di Posillipo…” Leggendo «Io lo chiamo cinematografo», la biografia di Rosi curata da Peppuccio Tornatore, lo scrittore si meraviglia di quanto poco conoscesse l’amico “nonostante la confidenza e la lunga frequentazione”, e corre ai ripari restituendoci all’impronta una ‘revisione’ emozionante della figura artistica e umana del regista. Di Patroni Griffi afferma di rimpiangere soprattutto la compagnia: “Quando, squattrinato, arrivai a Roma in cerca di lavoro, fu lui che mi ospitò nella sua casa, e oltre a ciò mi aiutò nel lavoro in televisione, dove lui aveva già un posto da dirigente”. E ne ravviva con pennellate accese la prova letteraria forse più famosa intitolata “Scende giù per Toledo”, la vicenda di “un povero femminiello napoletano mitomane e assatanato di sesso”. Di Ghirelli, che fu direttore di quotidiani sportivi e capo ufficio stampa del Presidente Sandro Pertini, rievoca la naia passata insieme nel 52° Battaglione d’Istruzione, nel 1943, restituendone la battuta di spirito folgorante e la profondità delle analisi storiche.
Ecco Elsa Morante: “Lei amava molto Rimbaud, era il suo poeta preferito. Dice un verso di Rimbaud: «E ho visto là dove altri ha creduto di vedere». Anche lei, Elsa, era di quelli che vedono oltre”. Valentino Bompiani, l’editore di Savinio, di Flaiano, di Moravia, di Brancati, di Piovene, di Proust, di Camus, ebbe il merito di sconfiggere il demone distruttivo che si era impossessato dell’autore, la tetra sfiducia nei propri mezzi: “…e lui a replicare ostinatamente che no, che mi sbagliavo, che attraversavo una crisi che molti scrittori avevano attraversato, che lui credeva nel mio talento e niente e nessuno avrebbero potuto convincerlo del contrario, nemmeno io”.
Parise, l’amatissimo Goffredo, gli palpita ancora accanto. Quando Ferito a morte tra veleni e gelosie entrò nella finale del Premio Strega, Parise, “che conoscevo solo di nome e molto ammiravo”, gli si presentò davanti mentre era seduto da solo al Caffè Rosati: “Mi sorrise, mi tese la mano dandomi un foglietto, mi disse: «To’». Mi dava il suo voto”. Goffredo che da ragazzo faceva il “metticazzo” in un allevamento di cavalli: “Lui sapeva raccontare senza scomporsi, e alla fine che il fatto fosse tutto vero o tutto inventato era solo una questione secondaria e irrilevante”. Parise che mentre stanno chiacchierando in Piazza del Popolo, all’improvviso si interrompe e gli sussurra all’orecchio: «Lo vedi quel signore corpulento e volgare con quella specie di puttana tutta truccata al fianco? Quello è mio padre. Mio padre naturale».
Di Vittorio De Seta, autore di Diario di un maestro, un successo televisivo senza precedenti, ricama questo acutissimo giudizio: “Per lui il cinema era una specie di esercizio spirituale (…) che lo rendeva sempre insoddisfatto, come se dal suo lavoro si aspettasse una rivelazione che non arrivava fino al punto desiderato, la scoperta di una verità che potesse soddisfare la sua anima ansiosa”.
Però l’annotazione più imprevista e commovente è quella che l’autore ci regala di se stesso nel capitoletto dedicato a Cesare Garboli il critico letterario “antico-italiano” che “quando parlava di Dante sembrava che fosse un suo conoscente”, di Bassani diceva che “lavorava come un sarto col gessetto”, faceva spallucce riguardo a Joyce definendolo “goliardico”, e “quando parlava di politica si arrabbiava sul serio. Io invece no, ero fedele al monito di Kafka «nella lotta tra te e il mondo asseconda il mondo», nel senso di essere per la vita, per la continuità della vita, di non negarla se non coincideva con le nostre idee”.
Amabile, amorevole Raffaele detto “Dudù” nato sotto il segno della Bilancia per regalarci felicità e armonia.