Pay -tv, la casa delle finestre che ridono

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Il tema delle cosiddette finestre, vale a dire il tempo intercorrente tra la permanenza dei film nelle sale e il loro utilizzo nelle piattaforme a pagamento o nella stessa televisione generalista, è tutt’altro che un argomento tecnico.

Si tratta, infatti, di una sequenza di una vera lotta culturale (e politica) in corso. Stiamo parlando di quel filo che unisce l’articolata diagnosi della lettura dei libri (i dati vanno su e giù, ma è forte la distanza tra i soggetti forti e quelli deboli), la questione delle competenze digitali tuttora assai scarse e divise, i servizi universali rispetto ai modelli rivolti alle nicchie abbienti nella rete. A parte il dramma dei giornali, che merita un discorso a sé, vi è un nesso chiaro tra i fenomeni salienti delle culture di massa. E il capitolo della tenuta temporale dei film nei cinema entra nel vivo della frattura tra chi sa e chi non sa, tra chi è in grado di demistificare i meccanismi dell’industria culturale e chi – invece- diviene suddito subalterno di una diseguale struttura comunicativa.

Il consumo del prodotto culturale ha tratti ben diversi se si assume nell’interezza dei segni, con i ritmi (ivi comprese le lentezze) decisi dalla libera creatività di autrici e autori, o – al contrario- si declina secondo i ritmi artificiosi dell’ingannevole età digitale.

Per dirla in breve. Un film centellinato nel buio socializzante della sala non è lo stesso film assunto dal pacchetto di un Over The Top. Un’opera cambia a seconda che chi la fruisce la completi in un modo o nell’altro nell’atto dell’assunzione privata. Nell’immaginario può arrivare un prototipo ovvero una sua riproduzione adattata ad un altro mezzo.

Tutto ciò ha a che vedere con le disavventure cognitive causate dalla dittatura dei social e dalla abnorme restrizione degli spazi di concentrazione. Com’è noto, l’argomento è all’attenzione preoccupata della pedagogia.

Guai a lanciare invettive contro gli strumenti mediali più evoluti. Anzi. Il progresso delle tecnologie offre impreviste opportunità, ad esempio, nel riuso dei materiali di archivio ormai presenti nelle narrazioni audiovisive; o nell’approccio al racconto attraverso formidabili metodologie digitali.

Ma, attenzione. Nulla di realmente evolutivo può accadere, se non si coniuga la velocità con l’effettiva metabolizzazione dei contenuti.

Ecco perché la questione delle finestre è delicatissima. Non si sottovaluti ciò che si sta discutendo. Sembrerebbe in arrivo un emendamento governativo al decreto legge del 17 maggio scorso in sede di conversione proprio sutale nodo. Non per caso il primo di giugno si tenne una riunione con le varie categorie interessate con il ministro Franceschini. E di fronte a opinioni piuttosto distanti il titolare del ministero competente annunciò un’iniziativa dell’esecutivo.

In verità, l’ultimo provvedimento in materia è recente: il vecchio decreto dell’ex ministro Bonisoli è del 2018, ma i gruppi sovranazionali e non del settore premono per ridurre le finestre. Da 105 giorni, a 90 e ora si pretende di arrivare a 45. Non solo. I limiti riguardano le opere nazionali, visto che i film d’oltre oceano sarebbero esentati dagli obblighi. Se no, si obietta, non investirebbero in Italia.

Speriamo che Dario Franceschini non ceda ai richiami delle major o di Netflix o di Amazon o di Disney o di Apple. Se chiudessero via via tutte le sale, del ministro si ricorderebbe il luddismo culturale e non chissà quale riforma.

Si potrebbe prendere a riferimento l’assetto deciso dalla Francia, con la quale peraltro c’è il trattato bilaterale siglato al Quirinale. Ebbene, lì hanno scelto la via della flessibilità e della regolazione differenziata. Lo sfruttamento con l’home video ha un tempo di 90 giorni, sei mesi per le pay-tv, 15 mesi e oltre per il resto (vedi Netflix), fino a 22 mesi per la televisione generalista gratuita. Si guarda anche al successo di pubblico nei cinema per graduare la transizione.

Insomma, così come negli anni ottanta del secolo passato si misero dei paletti all’interruzione dei film con gli spot, ora è improcrastinabile riscoprire il valore dell’eccezione culturale.

Credits foto Tv Tecnology


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