Anche i cento anni dalla nascita di Turi Ferro (e la mezza dozzina dalla scomparsa di Ida Carrara, splendida, eclettica attrice, sua compagna d’una vita) sono trascorsi quasi sotto silenzio: un po’ a causa della pandemia, molto per negligenza delle culturali “entità” che dovrebbero tesaurizzare il culto della memoria.
Pertanto, e con qualche episodica eccezione da parte dello Stabile di Catania, sono stati in pochi ad “avvedersi” di un mancato tributo che non intendeva essere –Dio-ne scansi- accademico e genuflesso, ma operato fra gli stessi ambiti, ambienti, compagni di viaggio in cui (anche) altri dimenticati protagonisti dello Spettacolo ‘viandante’ si trovarono ad agire nel cuore del secolo scorso.
A compimento –con Giovanni Grasso, Salvo Randone, Michele Abbruzzo- della storica ‘esemplarità’ di un teatro scabro-naturalista, precipuamente siciliano, che la scena italiana avrebbe diritto (e didattico dovere) di potere divulgare con il mezzo televisivo ed altri media ‘digitali’.
Discorso complesso e non esauribile nello spazio di un ricordo.
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“La cattura” e “Servo di scena”, come alcuni ricorderanno, furono (con un possente Creonte per “Antigone” al Teatro Antico di Siracusa) le massime esternazioni del Turi Ferro al culmine della sua maturità e duttilità . Il suo “ritratto d’artista da anziano”, sempre caratterizzato (si pensi al “Liolà” che lo rivelò, non più giovanissimo, dopo anni di aspra gavetta) dalla ‘facilità’ dei registri espressivi con cui sapeva transitare, pur nell’ambito di uno stesso copione, dalle tonalità comico-beffarde (un titolo per tutti, “L’altalena””) a quelle di ellenica o pirandelliana tragicità.
“Servo di scena”, in particolare, tradotto da Masolino D’Amico dalla commedia di Ronald Harwood (da cui il pluripremiato film del 1983 diretto da Peter Yates, con n Albert e Tom Cortenay) è l’occasione in cui Ferro umanizza e letteralmente metabolizza –attraverso la tecnica del meta teatro- il capitolo ultimale di un onusto attore ormai al tramonto che “affida” la sua sopravvivenza, non solo artistica, alle cure e alle attenzioni del suo mite assistente, seralmente preposto a motivare e decongestionare (dal malumore, dalla riluttanza) un ‘datore di lavoro’ bizzarro e capriccioso. Dispotico si, ma ‘cresimato’ di quell’infantile ingenuità burbanzosa che lo rendono “oggetto di ogni cura” anche nei plateali episodi di prepotenza.
Enucleando i più affascinanti elementi (di linguaggio, paradossi, enfasi e miserie di umana pietas), la regia di Guglielmo Ferro, figlio di Turi e e Ida Carrara, cristallizzava con duttilità e scioltezza (in uno spettacolo che risale alla metà degli anni ’90) sia l’atmosfera dell’Inghilterra del 1940 (dopo Dunkerque, seconda guerra mondiale) sia le “tensioni e le puerili rimostranze” della scompaginata compagnia itinerante. Potendo contare, oltre al padre, sulla eccellente performance di un altro grande attore, Piero Sammataro (di formazione strehleriana), scomparso cinque anni fa, nella puntuale ‘ignoranza’ dei più. E solidificandosi quale “inno d’ amore, rabbia, passionale tolleranza” per un teatro, reso partecipe della “grande illusione che l’umana civiltà” invece di regredire verso le spelonche “possa sconfiggere le forze oscure della guerra che incombe su tutti e su tutto, oggi come ieri”. Con personale difficoltà a coltivare ottimismo.
Petizione di intenti che, in memoria di Turi (“abituato com’ero a recitare anche sotto le bombe”- confidava), ritroviamo nello spettacolo che il Teatro Quirino, lo Stabile di Catania e la Compagnia di Geppy Gleijeses – sempre con la regia di Guglielmo Ferro- porta in tournée sino a fine stagione e la volontà organizzativa di poterlo riprendere sia in ‘estiva’, sia per il cartellone del prossimo anno.
E se è vero (lo è) che “la vita di un attore, narciso e impenitente seduttore si consuma sulla scena e sulla scena anela a concludersi” annoto dal programma di sala- non v’è dubbio che tale slittamento fa il paio con l’estrema forma di una sfacciata vanità, di una impervia ‘avventura’ che “è certa” di distillare la propria forza taumaturgica dal lenimento che i tavolacci di scena esercitano sul dolore di chi li ha calcati per tutta una vita
Semplice e suggestivo, dotato di un dispositivo scenografico ‘elementare’ ed accuratamente ‘trasandato’ (valga anche per i costumi) questo nuovo incontro con “Servo di scena” evita di farsi apologia “del mestiere” per focalizzarsi sulla resa di un gruppo di interpreti affiatati e di avvincente capacità “di renderti loro complice”.
Con frase verosimile ma abusata (sino al ‘luogo comune’) tocca a loro dare sostanza al motto del “teatro che si fa vita ed a quest’ultima che è già teatro” (lo si voglia o no).
Pertanto è Geppy Gleijeses che si profonde nel ruolo dell’anziano Sir Roland modulando la evocativa qualità evocativa di una performance capace dI imporsi per la sua disarmante sintesi di fatua nevrosi e stremata vitalità (da manuale, la sua ostinazione piagnucolosa di completare la recita di “Re Lear”) A suo fianco, nell’eponimo ruolo del titolo, emerge rapidamente Maurizio Micheli, preposto a dar sostegno all’ex mattatore con la leggerezza, l’impalpabile ironia si chi “sente” di dare un senso alla propria vita giusto per il rigore con cui ha imparato a rendersi indispensabile “proprio perché” si è sempre tenuto lontano dalle luci della ribalta. Purtroppo effimere.
Ps il cast dello spettacolo comprende l’ eccentrica ed “egocentrica” Lucia Poli, nel ruolo della prima attrice sempre e ovviamente insoddisfatta, insofferente. Di scena anche Roberta Lucca, Elisabetta Mirra, Agostino Pannone, Antonio Sarasso. Tutti “in parte” e di complementare destrezza.