Hanno ragione le organizzazioni sindacali delle telecomunicazioni. La preoccupazione che la ventilata (cosiddetta) rete unica delle telecomunicazioni si risolva in un bagno di sangue per l’occupazione è, infatti, sacrosanta. Ricordiamo che solo a Tim lavorano più di 42.000 persone, con un indotto che arriva a 100.000 unità.
Parliamo di Tim (unica sigla, che integra e supera la vecchia Telecom), perché nell’annunciato matrimonio di convenienza tra l’ex monopolio di stato ( composto da Vivendi, cassa depositi e prestiti, fondo Kkr nella controllata FibercCop, piccoli azionisti) e la concorrente Open Fiber (cassa depositi e presiti con il fondo australiano Macquerie) è proprio l’antica azienda pubblica a rimetterci. La lettera di intenti (memorandum of understanding) concordata nella serata di domenica scorsa non fuga affatto i dubbi.
L’infrastruttura di Tim verrebbe scissa e la nuova società NetCo in cui confluirà il backbone – vale a dire il gioiello di famiglia della dorsale- rischia di diventare una sorta di pasticcio, prevedendosi la confluenza in essa di un grumo consistente dei debiti. Si rovescia, insomma, l’ordine degli addendi: la rete passa da punto di qualità del sistema a imbuto dei guai e l’apparato dedicato a coordinare l’offerta dei servizi potrà stare sul mercato libero e pronto ad accogliere fette di clientela con capacità di spesa.
Tutt’altra storia voleva essere la rete unica e pubblica sulla quale si è consumata una lunga stagione di contraddizioni e di conflitti, dopo la stecca della peggiore privatizzazione italiana. La retrotopia non è praticabile, ma basti solo pensare per un attimo se gli orologi del tempo tornassero al 1996-1997 e si potesse riscrivere il libro dei dolori. Si poteva privatizzare (l’Europa, l’Europa), ma in ben diversa direzione, come fu fatto in Germania con Deutsche Telekom o in Francia con l’omologa struttura o persino in Italia con Eni ed Enel. Furono scartate, del resto, le ipotesi di costruire una public company o di mantenere la rete in mano pubblica liberalizzando i servizi.
Ed ecco le conseguenze. L’infrastruttura di base da bene comune è declassata a refugium peccatorum. Il resto è luogo di conquista per clienti attirati da offerte di sontuosa crossmedialità.
Vedremo che accadrà nei prossimi cinque mesi, il termine stabilito dal MOU. E capiremo se i sindacati, pronti ad uno sciopero, avranno avuto qualche garanzia tanto sul lavoro vivo di oggi quanto sulle prospettive delle attività strategiche e della ricerca, un tempo fiore all’occhiellotecnologico nel villaggio globale.
Vi sono, però, alcune questioni da chiarire subito.
Innanzitutto, le sedi parlamentari sono coinvolte nel dibattito e nella decisione o – al massimo- si devono accontentare delle audizioni dei ministri competenti? Se è vero che stiamo parlando di un argomento sensibile della e per la democrazia, visto che sono implicati strutture per la cybersicurezza e cavi sottomarini dove l’Italia svolge un ruolo cruciale, la discussione trasparente è decisiva. Serve, almeno, un documento di indirizzo, che offra la cornice istituzionale dentro la quale inserire l’eventuale ricorso all’estremo strumento di tutela della sovranità nazionale chiamato golden power. Altrimenti, rimaniamo alle solite grida manzoniane.
Inoltre, è indispensabile immaginare una sorta di statuto di funzionamento della rete: diritti e doveri, neutralità ed accesso aperto e non discriminatorio, forma della governance, partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori alla gestione dell’impresa.
Infine, si attende una chiara presa di posizione delle autorità che hanno a che fare con un processo così rilevante: da quella per le garanzie nelle comunicazioni, all’antitrust, al garante per la protezione dei dati personali. Ovviamente, nel contesto delle regole di Bruxelles, che non possono valere a giorni alterni. Si può tollerare la bizzarria che la cassa depositi e prestiti (ma che cos’è davvero la CDP, un’IRI camuffata?) e il fondo Kkr indossino varie maschere in commedia: oggi qui domani là, controllanti e controllori?
La rete è un bene comune, non un gioco di potere.