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I sacrifici umani non salvano l’Amazzonia

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Sono di un giornalista e di un indigenista le vite a rischio che una volta ancora richiamano la nostra labile attenzione sulle distruzioni che con l’Amazzonia divorano zone irrecuperabili ed essenziali agli equilibri ambientali del pianeta terra. Sono le ennesime e non ultime vittime sacrificali di una catena di delitti maturati in tempi e circostanze diversi fin dagli inizi del secolo scorso. Ma riconducibili tutti o quasi alla responsabilità politica di quei governi brasiliani che non hanno fatto nulla per prevenirli, lasciandoli anzi assai spesso impuniti e favorendone quindi la continuazione. I numeri indicano che dopo l’incerta tregua seguita alla fine della dittatura militare (1985), la strage ha ripreso con forte intensità con l’attuale presidenza di Jair Bolsonaro, aperto sostenitore di uno sfruttamento economico senza regole della gigantesca foresta pluviale.

Dom Phillips, 57 anni, britannico, e il brasiliano Bruno Pereira, 41, ex funzionario della storica Fondacao do Indio (Funai), sua guida e assistente, sono esperti conoscitori della parte nord-occidentale della selva, ai confini con Colombia e Perù. L’area è estesa varie volte l’Italia, in parte inesplorata, e oltre a due grandi riserve di popoli originari ospita anche una tribù di indios nomadi d’imprecisata consistenza. Di questi soltanto due o tre individui hanno avuto sporadici contatti con la nostra civiltà. Pereira è uno dei pochissimi ad averli incontrati. E anche per questa sua eccezionale esperienza accompagnava Phillips, periodico collaboratore di The Guardian e del New York Times con articoli sulla selva amazzonica, che stava preparando un libro proprio sullo sconosciuto gruppo indigeno. Un lavoro non solo di divulgazione antropologica, mirato bensì a proteggere gli indios e l’ambiente dalle insidie dell’indiscriminata speculazione che invade la selva brasiliana per aprirla poi ai pascoli estensivi di bestiame.

Peggio che inospitale, ostile per gli innumerevoli pericoli che nasconde, al di là di quello della sua immensità, l’Amazzonia ha tuttavia una frequentazione umana incredibilmente maggiore di quanto verrebbe di pensare. Una presenza non meno insidiosa di quella di puma, serpenti e insetti letali vari programmata dalla natura. Ancora molti anni addietro, in Roraima, verso la frontiera con il Venezuela, in piena selva ho incontrato durante vari giorni decine di garimpeiros, i cercatori clandestini d’oro e diamanti che avvelenano i corsi d’acqua con il mercurio di cui si servono per pulire pietre e metalli preziosi. Qualcuno tra loro mi ha avvertito più o meno bruscamente che stavo cacciandomi nei guai; ma nonostante le domande scabrose i più si lasciavano intervistare come se fossimo all’uscita da una partita calcio. Spiegandomi, un paio dei più loquaci, di non essere al servizio dei grandi proprietari terrieri della regione, al contrario di certi altri che per loro conto tentavano di terrorizzare i missionari dell’Ordine della Consolata che operavano in difesa degli indios della zona.

Oggi, quelle terre lungo il fiume Catrimani, centinaia di chilometri quadrati, sono completamente occupate dai garimpeiros che vi si sono accampati stabilmente. Gli yanomami che vi abitavano da secoli sono stati costretti ad allontanarsi. Una volta al mese i cercatori vanno a Boa Vista per vendere ai commercianti della città la piccola o meno piccola fortuna strappata alla foresta. Fanno rifornimento dell’indispensabile e vi tornano. Nel tempo, ad essi si sono aggiunti taglialegna, cacciatori e pescatori di frodo. Segano i grandi tronchi dei non molti alberi ad alta densità, spesso ultracentenari, e soprattutto cercano le piante rare e meglio pagate nei salotti delle grandi fazendas dei latifondisti; catturano animali da ridurre a cibo fresco e altri, meno comuni, che uccidono e impagliano per i numerosi collezionisti; pescano in fiumi un tempo ormai dimenticato incontaminati ma che rigurgitano di pesci d’ogni specie.

E’ uno di loro, un pescatore noto per le sue frequenti incursioni nella riserva indigena di Yavarì, l’unico indiziato finora fermato dalla polizia per la scomparsa di Phillips e Pereira. E’ accusato di averli minacciati e poi nascostamente seguiti, quando ormai più di una settimana fa sono partiti entrambi a bordo di un battello a motore dal lago Jaburu. Erano diretti al capoluogo della provincia, Atalaia do Norte, dove però non sono mai arrivati. Qualcosa che appare sempre più probabilmente irrimediabile è accaduto loro in qualche momento del viaggio. Le ricerche, inizialmente, sono state affidate a una sola lancia della polizia. Quando la preoccupazione per la sorte dei due era già una notizia internazionale, Jair Bolsonaro ha criticato la loro leggerezza per essersi avventurati in un territorio ostile.

Lunedi scorso si è all’improvviso diffusa la notizia del ritrovamento nella zona di due cadaveri dilaniati appesi a un albero, e la prima reazione è stata attribuirli ai due scomparsi. Anche perché quella forma di estremo oltraggio, raffigurazione di un’impiccagione postuma, è tipica di certe vendette mafiose nel nord brasiliano. Successivamente, però, la mancanza di conferme è stata presa come una smentita. Ha ripreso invece vigore la polemica sui ritardi con cui le autorità hanno organizzato le ricerche, facendovi partecipare solo trascorso qualche giorno dalla scomparsa ulteriori imbarcazioni, personale specializzato in ricerche subacquee ed elicotteri. In difficoltà per i sondaggi che lo vedono sconfitto dall’ex presidente Lula nelle presidenziali del prossimo ottobre, Bolsonaro non si è negato altre improvvide considerazioni in proposito. Il nuovo dramma amazzonico scuote il Brasile.


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