I mondiali del Qatar 2022 e le violazioni dei Diritti Umani, al Festival di Ronchi dei Legionari

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Grande successo al “Festival del Giornalismo”, organizzato da Leali delle Notizie, di Ronchi dei Legionari, nella serata del 15 maggio per il dibattito su “Qatar 2022: un calcio ai diritti umani?”.

Il panel è stato introdotto dal Presidente della Federazione della Stampa Giuseppe Giulietti.

La mia proposta quest’anno all’VIII edizione del Festival del Giornalismo – ha detto il Presidente – è quella di creare una rete di città che adottino l’articolo 21 della nostra costituzione. L’articolo 21 non è solo la libertà dei giornalisti di esercitare il proprio mestiere, ma è il diritto dei cittadini di poter scegliere e di esprimere e comunicare pensieri diversi. Il 4 luglio l’associazione Articolo 21 compirà 20 anni di vita, nel corso dei quali ha cercato di difendere la libertà di espressione. In occasione di questo importante anniversario vogliamo premiare le comunità che abbiamo incontrato e che portano avanti le nostre stesse battaglie”.

Dopo aver dato una targa ai Comuni di Marzabotto e Sant’Anna – ha proseguito Giulietti -, vorremmo quest’anno dare un riconoscimento pieno all’intera comunità di Ronchi dei Legionari e all’associazione Leali delle Notizie per tutte le attività che sono state svolte a difesa della libertà di stampa e di espressione. Il 4 luglio a Roma ripercorreremo nella Casa Internazionale delle Donne tutte le battaglie che sono state portate avanti negli anni da Articolo 21 e consegneremo una targa di riconoscimento al Comune di Ronchi dei Legionari e all’associazione Leali delle Notizie”.

Dopo i saluti del Presidente la serata è proseguita con gli interventi dei vari relatori sulla  comunicazione dello sport e di diritti umani.

Si è discusso soprattutto della preparazione ai mondiali di calcio che si terranno quest’anno nell’emirato del Qatar e delle tantissime violazioni di diritti e abusi nei contratti di lavoro. Moderatore Stefano Corradino Direttore di Articolo21, che ha ricordato le migliaia di morti in questi anni durante la realizzazione delle infrastrutture per i mondiali.

Tiziana Ciavardini, antropologa culturale e ricercatrice, è stata la prima relatrice a prendere la parola e  ha portato la sua personale esperienza vissuta in Qatar dal 1991 al 1995. Esperienza di un paese che negli ultimi 30 anni è molto cambiato, ma che non ha ancora abbandonato alcune pratiche come quella della Kafala spesso definita come una forma moderna di schiavitù. Un sistema utilizzato per monitorare i lavoratori migranti, che in Qatar rappresentano il 70% della popolazione e costituiscono il 95% della forza lavoro. Immigrati che lavorano principalmente nei settori edilizio e domestico costretti spesso a operare a temperature che possono sforare i 50 gradi e a condizioni disumane, con paghe molto basse o addirittura inesistenti. “Quando vedremo in tv i campionati di calcio in Qatar con le meravigliose e lussuose costruzioni realizzate proprio per questi mondiali- ha detto Ciavardini – dovremmo sempre rivolgere un pensiero ai tanti lavoratori immigrati che per realizzarle hanno perso la vita”.

La parola è poi passata a Nicholas McGeehan, direttore FairSquare Research and Projects che ha confermato le riflessioni della Ciavardini aggiungendo però che a suo avviso il sistema della ‘Kafala’ seppur con moltissimi difetti da correggere, ha sicuramente il vantaggio di poter gestire in qualche modo la moltitudine di immigrati stranieri in Qatar. Secondo McGeehan, la Kafala è una sorta di ‘protezione e tutela’ da parte del datore di lavoro nei confronti del suo dipendente che però non dovrebbe mai sfociare come invece spesso accade in una sorta di abusi o sfruttamenti.

“Il tema della partecipazione o meno a manifestazioni sportive organizzate in paesi dove vengono violati in maniera massiccia i diritti umani non è  certo nuovo – ha detto Paolo Pobbiati  già presidente di Amnesty International. – Se da un lato potrebbe essere l’occasione per produrre cambiamenti importanti, più spesso prevalgono interessi economici e la scarsa consapevolezza rispetto a questi temi di opinione pubblica e tifosi. In Qatar la FIFA avrebbe avuto possibilità di fare e pretendere molto, ma ha preferito minimizzare ed evitare interventi, nonostante Qatar 2022 rappresenti un ulteriore sviluppo di questa connivenza. Le violazioni dei diritti dei lavoratori infatti non rimangono più sullo sfondo dell’evento sportivo, ma sono direttamente collegate al calcio giocato. Questo fa si che si sia oltrepassata una “linea rossa” che è imperativo fare in modo che non debba più essere superata  in futuro”.

Un altra interessante riflessione è stata suggerita da Gianluca Mazzini, vicedirettore Tgcom24 Mediaset e autore di “Qatar 2022. Un mistero mondiale” edito dalla casa editrice Lupetti che ha messo in evidenza le tante ‘curiosità’ di questo prossimo Mondiale di calcio 2022. “Un Mondiale – spiega Mazzini – che si  giocherà a Doha capitale del Qatar dal 18 dicembre 2022. Mai nella sua storia centenaria il Mondiale si è disputato in inverno. Saranno fermati tutti i campionati di calcio nazionali nel pieno del tradizionale calendario calcistico già in ottobre. Saranno fermi i tornei principali in Europa, sud America, Asia. Una cosa mai vista prima. Tutti noi dovremmo chiederci come sia stato possibile che la FIFA abbia deciso di assegnare il principale evento calcistico al mondo ad un piccolo paese arabo senza tradizioni sportive, senza strutture adeguate, e in più caratterizzato da un clima desertico? Un mistero che parte da lontano. Ma questa scelta passa per molto altro dalle lotte geopolitiche, al terrorismo, alle riserve energetiche, ai fondi di investimento, al potere televisivo, alla tv araba Al Jazeera, alle rivoluzioni e Jihad, ai campioni di calcio e alla tecnologia”.

Ha concluso il dibattito Riccardo Noury portavoce di Amnesty International Italia “Dal 2010, quando la FIFA ha affidato al Qatar l’organizzazione dei Mondiali di calcio del 2022, le organizzazioni per i diritti umani hanno costantemente sollevato il tema del trattamento dei lavoratori migranti: milioni di braccia indispensabili per la costruzione degli stadi, degli impianti sportivi e delle altre strutture logistiche e relative ai trasporti e all’accoglienza. L’esperienza che due milioni di persone hanno vissuto è stata segnata da sfruttamento del lavoro, stipendi non versati, condizioni di vita agghiaccianti, limitazioni di movimento. E poi, sudore, sangue e morte. Nel 2017 le inchieste giornalistiche, le denunce delle organizzazioni per i diritti umani e le pressioni delle organizzazioni sindacali internazionali sull’ILO hanno costretto le autorità del Qatar ad avviare un piano di riforme: l’eliminazione dell’obbligo di chiedere l’autorizzazione del datore di lavoro per cambiare impiego, il salario minimo, l’istituzione di comitati per favorire l’accesso alla giustizia e per risolvere le controversie e l’approvazione di norme per proteggere i lavoratori dalle condizioni climatiche estreme. Dopo tre anni di attuazione insufficiente, dal 2020 il processo di riforme si è interrotto. Lo sfruttamento del lavoro, che in non pochi casi costituisce vero e proprio lavoro forzato, continua a essere la regola e non l’eccezione e i datori di lavoro continuano a comportarsi in modo lesivo dei diritti e della dignità dei lavoratori. Un’occasione persa dunque. Dalla FIFA, che in un carteggio con Amnesty International del maggio 2022 ha sostenuto di aver voluto “usare la competizione come strumento per avviare un più ampio cambiamento sociale” in Qatar  e questo testo dimostra che non ha voluto farlo o, quanto meno, non vi è riuscita; e dallo stesso Qatar, che non ha saputo smentire che questa operazione sia stata, in definitiva, la quintessenza dello sportwashing. 

Quando l’arbitro della finale – conclude Noury – darà l’ultimo, triplice, fischio, quando sul terreno di gioco resteranno solo i coriandoli dei festeggiamenti, quando l’ultimo dei tifosi sarà tornato a casa, molti lavoratori migranti torneranno a casa con niente in tasca. Altri rimarranno in Qatar per contribuire alla realizzazione di altri progetti scintillanti, ma sempre senza diritti. Altri, come noto, sono già tornati a casa, ma in una bara. Senza un documento che attestasse le circostanze della morte, senza risarcimenti per le famiglie.”

 


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