Settant’anni di regno costituiscono un traguardo invidiabile. I complimenti a Elisabetta II, pertanto, sono d’obbligo. Ciò premesso, la vicenda della sovrana inglese ci induce a compiere alcune riflessioni sul potere, rifiutando la solenne bugia di quanti sostengono che la sovrana non abbia alcun ruolo politico ma di mera rappresentanza. Elisabetta, al contrario, è stata l’ancora cui si è aggrappato il Regno Unito, a dire il vero piuttosto disunito, negli ultimi anni. Del resto, chiunque sa che si tratta della più grande diplomatica al mondo, di una personalità universalmente riconosciuta e di una figura che, per esperienza, competenza e prestigio, non ha eguali, riuscendo nell’impresa di tenere ancora in piedi un regno messo in discussione dalla perdita del suo ruolo a livello globale e da alcuni errori decisivi compiuti dai suoi governanti, primo fra tutti la Brexit. Tuttavia, crediamo, al tempo stesso, che la gloria del passato sia ormai insufficiente. È innegabile, infatti, che la longeva sovrana appartenga ormai a un immaginario che non esiste più.
Nata nel ’26, ha vissuto e visto da vicino le atrocità della Seconda guerra mondiale, conoscendo da bambina il primo caso spinoso per la casa reale moderna, ossia il matrimonio fra Edoardo VIII e l’americana Wallis Simpson, antesignano della vicenda che sarebbe stata chiamata a gestire in prima persona sette decenni dopo per via della passione di suo nipote Harry per Meghan Markle, un’altra americana piuttosto spigliata che costituisce l’antitesi della monarca. Ha conosciuto la stagione d’oro del Commonwealth e il periodo della decolonizzazione dell’Africa, ha visto la Nazionale dei Tre leoni alzare al cielo la Coppa del mondo, che lei stessa consegnò nelle mani di Bobby Moore nel ’66, ed è stata protagonista dei primi due decenni del nuovo secolo e del nuovo millennio. Quando è nata, esisteva da pochi decenni il telefono e il televisore era agli albori, il computer era di là da venire e l’unica globalizzazione di cui si era a conoscenza era quella fondata sul predominio coloniale della vecchia e decadente Europa sul resto del pianeta. Dell’immaginario elisabettiano delle origini, dunque, non è rimasto nulla. E per comprenderlo, basta ripensare a un’immagine alquanto triste: la carrozza dorata a bordo della quale era stata trasportata il 2 giugno 1953, giovane e felice, con il suo ologramma proiettato sopra.
È il segno di un’assenza, quasi di un addio, di un vuoto, della fine di un’epoca che è durata, probabilmente, troppo a lungo, in spregio al fisiologico logoramento fisico di una donna che ha vissuto intensamente, viaggiato in ogni angolo del globo e dedicato l’intera esistenza alla sua gente e agli ideali in cui credeva. D’altronde, non si può chiedere a una persona che ha recentemente compiuto novantasei anni di essere ancora nel pieno delle forze. E non basta la scenetta con l’orsetto Paddington, per quanto simpatica, a fugare l’impressione che sia ancora in sella una visione non più al passo coi tempi. Non si tratta di simpatia o di antipatia ma di connessione sentimentale col popolo. E per quanto una messe di persone si sia riversata nelle strade per festeggiare la regina, le modalità stesse con cui si sono svolte le cerimonie rende bene l’idea di un tempo nuovo, completamente diverso rispetto all’universo valoriale elisabettiano. Basti pensare alle personalità del mondo dello spettacolo coinvolte nei festeggiamenti, basti pensare al trasporto emotivo che hanno generato, basti pensare a quanto in ogni istante si profilasse all’orizzonte l’immagine di Lady Diana, quintessenza dell’informalità e della freschezza in opposizione al rigido protocollo regale, per rendersi conto che il mantenimento dell’aura di sacralità che finora ha caratterizzato la real casa non è più possibile. Sia Kate che Meghan, sia pur in maniera radicalmente diversa, ne sono la dimostrazione tangibile.
Anche Carlo e Camilla, a dire il vero, sono apparsi inadeguati. Due eterni innamorati, convolati a nozze nel 2005 fra lo scetticismo generale dei sudditi, ma ormai anziani, costretti a fare i conti con una realtà che li riguarda e non li riguarda, con rituali completamente nuovi nei quali fanno fatica a riconoscersi, con una modernità che avanza e mette in crisi il loro attaccamento a costumi e tradizioni ai quali si sentono sicuramente più legati di quanto non accada ai figli. E così, dopo l’intramontabile Elisabetta, verso cui prevale un sentimento comprensibile riconoscenza, un sondaggio rivela che il pu amato sia proprio William, incarnazione di un potere moderno, femminista, con la consorte che cammina al suo fianco, lo consiglia e svolge un ruolo un tempo impensabile, coniugando amore, politica, adempimento dei doveri di corte e condivisione di un modo di essere e di intendere la vita. Non c’è dubbio, a tal proposito, che se Elisabetta abdicasse e Carlo si facesse da parte, il Regno Unito ritroverebbe smalto, non solo a livello di corona, potendo beneficiare della leggerezza, intesa in senso calviniano, e dell’entusiasmo di due ragazzi che si sono scelti e si vogliono bene, della gioia di vivere che trasmettono i loro bambini e di una dimensione normale e quasi borghese che costituisce l’unica forma di potere che le persone comuni, sudditi o meno, sono oggi disposte ad accettare. L’idea che esista ancora un’autorità superiore, alla quale affidarsi senza batter ciglio e meritevole di rispetto a prescindere, nell’era dei social e del mondo a rete non sta né in cielo né in terra. E, parlando in generale, non c’è elemento più ridicolo e pericoloso di un potere anacronistico, incapace di leggere le evoluzioni della società e arroccato a difesa di una realtà che non esiste più. Piaccia o non piaccia, almeno in democrazia, il potere contemporaneo ha bisogno di sondaggi, consensi virtuali ed effettivi e anche della credibilità e dell’autorevolezza necessarie per andare avanti. Con meno di questo, può pure mantenersi a galla ma non ha futuro. Purtroppo, è il grande rischio che corrono alcune democrazie europee, restie a comprendere che l’Ottocento e il Novecento sono terminati e quasi nessuno li rimpiange.
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